Cortile della Sapienza, 29 maggio 1940.
Rievocando Curtatone e Montanara
Dall’allocuzione pronunziata il 29 maggio XVIII dal Magnifico Rettore della R. Università di Pisa
Due minuscoli gruppi di case; un pugno di combattenti; forse una prolungata scaramuccia più che vera battaglia!
Ma quante battaglie combattute da ingenti masse agguerrite non impallidiscono al confronto?
Anche nelle azioni militari più della quantità conta la qualità, più della materia lo spirito; e il giudizio di valore non prende per unità di misura il successo.
Non arrise al pugno di prodi la vittoria!
Ma che importa alla gloria?
La gloria fu certa, chiara, purissima, né per l’allontanarsi nel tempo perde grandezza.
Non vinsero. Ma se il 29 maggio 1848 le poche migliaia d’improvvisati militi, resistendo per sette ore alle sei o sette volte per numero soverchianti schiere di sperimentate soldatesche austriache, resero possibile la vittoria che l’esercito piemontese conquistò a Goito, il giorno di poi, più importante l’eroismo e il sangue dei caduti abbiano lavato per sempre il popolo italiano dalla taccia d’imbelle, che tre secoli d’ignominiosa soggezione allo straniero gli avevano suscitato attorno, gravandolo come una soffocante atmosfera di disistima e una insuperabile catena di schiavitù.
Per la redenzione del popolo italiano, per la risorta fama del suo coraggio, della sua combattività, del suo valore, della sua audacia, una nuova storia s’inizia da Curtatone e da Montanara.
Nella nuova storia del coraggio e del valore italiano, il 29 maggio 1948, la più fulgente pagina fu scritta dal battaglione universitario della cui impegnativa tradizione, voi militi, siete i depositari, i continuatori e gli eredi.
La consegna si rinnova a ogni primavera e - fortunata coincidenza - avviene quando si chiude l’anno accademico, associato così: a un rito quasi religioso, del quale non saprei se più esaltare l’austera bellezza o la festosa solennità o il patriottico simbolismo, nell’ardente clima dell’era fascista.
Modesto o trascurabile come fatto d’arme, l’episodio di cui il battaglione fu protagonista è assurto, per le forze spirituali che animarono i trecento eroi, alla dignità di un fatto storico di nazionale importanza, che racchiude in sé un profondo significato militare, politico, civile e un insegnamento di altissimo valore educativo.
Il 29 maggio 1848, in comunità d’ideali, discepoli e maestri dell’Ateneo pisano confessarono e confermarono col sangue la fede nell’avvenire della Patria, dell’Italia unita e più grande; in comunità d’ideali con i giovani che rappresentano la speranza, la forza, la certezza del domani della Patria, ogni 29 maggio discepoli e maestri confessiamo e confermiamo l’incrollabile fede nell’Italia imperiale creata dalla rivoluzione fascista e dal genio del Duce, pronti, se mai occorra, al sacrificio ed al sangue.
Di quest’Italia imperiale, senza soste in cammino verso nuove ascese, Curtatone e Montanara - immensa grandezza nel piccolo -sono una condizione e una premessa.
E una promessa, anche. Una promessa sicura pur nella mancata vittoria, e al nostro cuore più vicina e più cara di mozze vittorie che non fummo soli a conseguire e di cui pagammo il disinteressato aiuto a prezzo d’usura.
Dobbiamo al battaglione universitario di Curtatone se l’Ateneo pisano, tempio del sapere, si è - primo fra tutti - rivelato anche un sacrario della fede; della fede nel risorgimento della Nazione e nel suo più alto destino.
L’Idea Italiana, certo, s’era già insinuata nelle aule, ma furtiva e cospirante; solo per virtù del battaglione universitario penetrò nella scuola ad ali spiegate, come dominante, e regina della mente e dei cuori.
E la scuola s’avvicina alla vita. Rimase, sì, laboratorio del pensiero dottrinale, ma s’affermò anche fucina di passioni ideali; dalla fredda erudizione - inatteso miracolo- divampa la sublime poesia dell’azione.
Libro e Moschetto. Di quasi un secolo l’Università di Pisa precorse, applicandola pur senza enunciarla, la mirabile, dinamica formula programmatica di Benito Mussolini.
Né si tradisce il vero riaccostando alla pura sorgente del 48, di cui Curtatone è la comprensiva sintesi, alcuni aspetti del volontarismo e della mistica fascista.
Ricordiamo: «Il battaglione degli scolari, lasciato nelle retroguardie alle Grazie, a udire il tumulto della zuffa, non raffrenò la bramosia del pericolo e quando Laugier facevalo chiamare perché ancor esso pagasse alla patria tributo di sangue, trovavasi dove già più ferveva la zuffa».
Bramosia del pericolo. Trovarsi dove più ferve la zuffa. Non è questa la norma dello squadrismo e del volontarismo fascista ?
Non è stata la norma dei nostri studenti che pronti e spontanei accorsero nell’Africa Orientale, anelando di partecipare fra i primi alla conquista del nuovo Impero? di coloro che pur ieri, combattendo da eroi in terra di Spagna, nei cieli di Spagna, tanto contribuirono alla vittoria della civiltà sulla disgregatrice barbarie bolscevica?
Non fu luminoso esempio di purissima mistica, tipicamente fascista, Leopoldo Pilla, l’insigne maestro di geologia, che a Curtatone spirò mormorando: «Non ho fatto abbastanza per l’Italia!»? Fiammelle nella notte senza dubbio, ma la sostanza era quella stessa della immensa fiamma che guidò le colonne della marcia su Roma.
Poiché è per l’Italia di Mussolini che i prodi di Curtatone si sono sacrificati! è l’Italia di Mussolini che dà senso e valore al loro sacrificio.
Non l’Italia del chiaro di luna, dei canti e dei suoni, del dolce far niente - giardino, albergo e museo - non l’Italia rattrappita e scettica, accidiosa ed abulica dell’anteguerra, ma l’Italia d’oggi, seria, disciplinata, concorde, tutta fremiti, di fede, di entusiasmo, di creazione, ubbidiente e dinamica; tutta slanci di passione e senso del dovere, inflessibilmente tenace nel volere, lucida nell’organizzare, fulminea nell’eseguire, saldamente ancorata alla vita eppure sprezzante d’ogni rischio, del rischio anzi bramosa, ad ogni sacrificio disposta.
Sono i grandi uomini che fanno la storia, ma ogni popolo ha, quando li ha, i grandi uomini che si merita.
Il popolo italiano che ha dato Giulio Cesare, Augusto e Napoleone meritava che dal suo seno spiccasse il volo, il Genio creatore di Benito Mussolini.
Delle fiammelle lampeggianti nella notte, il Duce ha fatto un rogo: e vi ha bruciato tutte le miserie, tutte le viltà, tutti gli egoismi, tutte le invidie, tutte le accidie, alla purificata fiamma di quell’incendio temprando la sostanza spirituale dell’intera nazione, che nella rinnovata coscienza di sé, della sua forza, del suo romano passato, s’avvia alla conquista d’una più alta responsabilità nella storia del mondo.
Con questo popolo di quarantacinque milioni; per questo rinnovato popolo italiano dell’Era fascista sì giovane, sano, forte, prolifico, che crede, obbedisce e combatte, il Duce ha spostato sempre più avanti i limiti della speranza, ha portato sempre più oltre i termini delle mète da raggiungere.
Tutte le mète saranno raggiunte perché egli ha occhi per tutte le insidie e noi abbiamo con lui, nervi per tutte le attese - cuore per tutti i sacrifici - fede per tutte le vittorie.
Nelle ore dell’inquieta, torbida, ansiosa vigilia, anche gli spiriti che nutrivano un senso appassionato per la gloria e per la potenza della nazione, che sentivano un’acuta insoddisfazione del presente anelando di vedere rinnovate le fortune della patria, non osavano sollevare il timido sguardo da ristretti orizzonti o si confessavano rassegnati a definitivi tramonti.
Uno storico insigne di Roma profetava umiliato ed umiliante: «I tempi delle conquiste politiche esterne di Roma e dell’Italia sono tramontati da molto tempo e per quanto possiamo prevedere, non torneranno più».
Non torneranno più?
Francesco Crispi, il precursore, non disperava ancora, ma deplorava la mancanza dell’uomo provvidenziale necessario.
«L’Italia è costituita - egli scriveva per un’occasione come l’odierna - ma l’anima sua assopita, l’energia spenta: manca l’uomo che la riveli e la conduca sulla via di quelle audacie civili che provano la grandezza della Nazione. Vedremo sorgere quest’uomo? Lo spero».
L’atteso era già nato ed era già in cammino per le vie del suo meraviglioso destino… Rapidi maturarono i tempi.
E fu la Marcia su Roma; fu l’Italia riconquistata a se stessa e restituita al suo Re.
E subito sarà la febbrile demolizione, men rapida, quasi, della titanica ricostruzione, della totalitaria opera costruttiva nei più diversi e lontani settori della vita nazionale e di ogni attività dello Stato.
I tempi delle conquiste politiche esterne non torneranno più?
L’Uomo delle audacie civili, invocato da Francesco Crispi, in breve volgere di tempo, contro la coalizione affamatrice di cinquanta nazioni, malate d’incomprensione o d’inespresse paure, darà di nuovo all’Italia un Impero.
Non torneranno più?
L’Albania s’è aggiunta ieri, novella gemma alla corona del Re Vittorioso.
Tuttavia lo spazio manca allo sviluppo di un giovane popolo di quarantacinque milioni d’abitanti costretti in troppo breve e troppo povero suolo, animati da irrefrenabile impulso alla vita e da volontà di potenza, manca perché le nazioni ricche e ben pasciute hanno chiuso tutte le vie arraffando i territori più produttivi. E l’Italia, magnifico ponte naturale proteso fra tre continenti, dal centro d’Europa fino al cuore del Mediterraneo, per tre quarti immersa in questo Mare che fu nostro, vi è ora tollerata o mal sopportata, quasi illegittima concorrente importuna: a ogni passo incontra ostacoli opposti a ogni suo più elementare diritto, ostilità ed insidie contro ogni suo più vitale interesse.
Ma sono nodi che possono ancora essere sciolti, che saranno presto risolti. Noi siamo pronti.
Evaristo Breccia
Da: Gli annali della università d’Italia, a. 1, n. 5 (1940), pp. 469-473.