Cortile del Palazzo della Sapienza, 29 maggio 1964.
Commemorazione del 116° anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara, tenuta del prof. Cinzio Violante, nel cortile del Palazzo della Sapienza il 29 maggio 1964
TRADIZIONE RISORGIMENTALE E RESISTENZA ANTIFASCISTA
Quest’anno ancora, fedeli a una tradizione che ci è cara, noi siamo qui riuniti, professori e studenti, con le autorità e i cittadini della nostra Pisa, a celebrare la giornata di Curtatone e Montanara: 29 maggio 1848.
La breve gloriosa storia di quell’episodio risorgimentale è nota a tutti. Il novembre 1847, nel fervore di riforme politico-costituzionali che precedette l’esplosione della guerra d’indipendenza della successiva primavera, un decreto granducale istituiva la Guardia Universitaria, nella quale avrebbero prestato servizio obbligatorio professori e studenti delle due Università toscane, di Pisa e di Siena, e dell’Accademia di S. Maria Nuova di Firenze. Nel marzo 1848 studenti e professori chiesero al ministro della guerra, Ridolfi, di essere mobilitati: così, fu concesso ai giovani e ai loro docenti di arruolarsi volontari in un Battaglione Universitario Toscano, che, quando giunse la sospirata, esaltante notizia della dichiarazione di guerra del Piemonte all’Austria, era ancora in fase di preparazione. Pochi fra i componenti questo singolare reparto, costituito unicamente da docenti e da discenti, erano dotati della divisa di prescrizione, confezionata di panno bleu e filettata di rosso amaranto; solo alcuni privilegiati possedevano uno zaino, mentre gli altri portavano a mano fagotti, più o meno ingombranti, di varia foggia. Fucili moderni, a fulminante, di fabbricazione francese o belga, erano giunti da poco a sostituire i più svariati tipi di fucile a pietra; ma non tutti potevano essere dotati della nuova arma.
Era mancata ogni formazione disciplinare di carattere militare, e l’addestramento tecnico sulle armi era stato piuttosto rudimentale: gli austeri e fervidi professori che inquadravano gli studenti delle università di Pisa e di Siena non avevano tempra né preparazione di sergenti!
Le Guardie Universitarie pisane erano nel complesso 562, quelle senesi 161. Partirono volontari per la guerra solo 389 da Pisa e 70 da Siena; ma parecchi, nel lungo faticoso viaggio verso i campi di battaglia, demoralizzati dalla incerta e timida politica granducale, chiesero e ottennero il congedo, sicché a Curtatone furono presenti appena 283 combattenti, dei quali soltanto 251 erano armati di fucile!
Questi sono gli scarni dati, che forniscono un’idea realistica delle dimensioni esteriori del piccolo episodio, che tuttavia senza esagerazioni retoriche può essere definito glorioso e storicamente importante. Sui campi di Curtatone e di Montanara i volontari universitari, studenti e professori, insieme con gli altri volontari toscani combatterono con coraggio e con tenacia, resistendo fino all’estremo alla pressione delle truppe austriache, sicché fu sventato il piano del maresciallo Radetzki di aggirare l’esercito piemontese sulla sinistra e fu quindi resa possibile all’esercito regio la folgorante vittoria di Goito.
Gli inesperti e indisciplinati militari, divenuti d’un colpo intrepidi ed eroici combattenti, erano giovanissimi studenti, dei quali solo pochi avevano compiuto i ventun anni, molti erano ancora fra i quindici e i diciotto anni. Loro comandante era il maggiore Ottaviano Mossotti, professore di fisica celeste, matematico esimio. E altri docenti non meno illustri, e inoltre letterati e uomini di cultura inquadravano quei giovani o militavano fra loro nei ranghi: il prof. Giuseppe Montanelli, ferito e preso prigioniero insieme con Cesare Studiati, dissettore anatomico e futuro grande fisiologo, il Centofanti, il Giorgini, il quale comandava una compagnia avendo ai suoi ordini il geologo Leopoldo Pilla, che cadde tra i primi. E ancora: l’architetto Guglielmo Martolini, lo scienziato Luigi Pacinotti, il fisiologo Luigi Corticelli, Carlo Matteucci, lo Zanetti, il Pellizzari.
Con i professori Pilla e Sforza caddero sul campo circa venticinque studenti; numerosi furono i feriti.
Il generoso tributo di sangue dato sul campo di battaglia da uomini di cultura, da docenti e da studenti, la nobiltà di alcuni gesti eroici, di ispirazione letteraria (il Bechelli che, agonizzante, recita la leopardiana canzone all’Italia), dimostrano l’intimo accordo fra pensiero e azione, il profondo valore educativo dell’insegnamento e della ricerca scientifica nelle Università toscane. Le fervide aspirazioni all’unità politica non avevano avuto forse una loro premessa anche nei Congressi degli scienziati italiani, dei quali tutti ricordavano quello di Pisa?
Una solenne lezione, nel marzo del 1848, il professor Centofanti aveva dedicata al Risorgimento italiano.
Dalla cattedra i docenti dell’Università pisana avevano sparso il seme delle nuove idee di nazionalità, di indipendenza, di libertà: idee che non costituivano un sistema astratto di ideologia politica, estraneo alla concreta attività letteraria e scientifica, ma erano il nucleo vivo del pensiero, il principio animatore d’ogni ricerca di quegli eletti ingegni: letterati, filosofi, giuristi, scienziati.
Pensiero e azione: questo significativo, nobile binomio risorgimentale, cari studenti, fu poi volgarizzato, deturpato - ad uso appunto degli studenti universitari - in quello di «libro e moschetto»! Il piccolo grande episodio di Curtatone e Montanara, la semplice epopea giovanile di quella battaglia risorgimentale divennero tema abusato della retorica guerresca del Fascismo, nella quale il libro cedeva al moschetto: nel canto ufficiale degli studenti universitari fascisti, «al tempo di studiar» le stanze diventavan «fredde e squallide» ed i libri «d’ogni scienza e d’ogni età» erano buttati in un canto perché il «dovere gridava» il... gioioso compito di combattere per il Duce.
Ricordo (io ero allora appena una matricola) la celebrazione di questa giornata, il 29 maggio 1940, mentre le armate tedesche, schiacciate le piccole libere nazioni del Belgio e dell’Olanda, dilagavano per il territorio francese, e la croce uncinata dominava l’Europa dalla Norvegia al Mediterraneo: l’entrata in guerra dell’Italia era imminente.
Ricordo, nel cortile della Sapienza, caro agli incontri studenteschi durante gli intervalli fra le lezioni, il tetro quadrato della Milizia Universitaria armata, l’appello militare degli studenti caduti nelle guerre di Etiopia e di Spagna, il cupo rullo dei tamburi e l’agghiacciante mitragliata che accompagnava l’urlo del «Presente!», a ogni nome.
Il gerarca del GUF che ci parlava, annunziò che i Littoriali indetti a Torino erano aboliti e invitò tutti «ai Littoriali della guerra»: poche settimane dopo, egli stesso avrebbe incontrato la morte in battaglia sulle sabbie infuocate di Libia, esempio di coraggiosa coerenza, che impone rispetto per la persona, ma nulla riscatta della nequizia di quei tempi.
Ma per gli studenti dell’Ateneo pisano l’impegno dell’accordo fra pensiero e azione era ed è rimasto nella tradizione legato agli ideali risorgimentali di indipendenza e di libertà: e, come essi seppero valorosamente combattere e molti coraggiosamente morire in tutte le guerre del Risorgimento fino a quella che compì l’indipendenza nazionale, così sotto la dittatura fascista non pochi giovani - nelle aule della Sapienza e nei severi ambienti della Scuola Normale - appresero i fondamenti culturali e ideologici di una resistenza al Fascismo, che divenne poi sempre più netta e cosciente. I primi arresti per motivi politici avvennero nel 1927! E dopo il ’30 vari studenti parteciparono al movimento «religioso» di opposizione, guidato da Claudio Baglietto, fine critico letterario, che morì nel 1940 esule in Svizzera, dove si era rifugiato perché si era reso disertore per «obiezione di coscienza». Dal 1937-1938 molto attivo fu in Pisa, nella Università, nella Scuola Normale, anche (e forse specialmente) nel Collegio Mussolini, che era stato invero fondato per incrementare gli studi sul corporativismo fascista, molto attivo - dicevo - fu il movimento liberal-socialista, animato e ispirato da Guido Calogero. Ma anche a chi non ebbe la ventura di far parte del gruppo antifascista, le lezioni cattedratiche e le socratiche conversazioni, sui Lungarni o al caffè Cipriani, di quel vero maestro di vita e di scienza impressero un’impronta indelebile nell’animo: una cultura storicistica, una educazione al dialogo, un impegno al rispetto dell’uomo, che in molti di noi studenti diedero frutti concreti solo più tardi, quando un altro, decisivo ammaestramento venne dalle tragiche esperienze della guerra, della prigionia o della lotta partigiana.
E ricordo i giovani cattolici impegnati, in ossequio alle esortazioni del Pontefice, in un fervido ciclo di preghiere per la pace, che, nell’imminenza del conflitto, significava, finalmente, un netto, aperto rifiuto dell’etica guerresca del Fascismo, e suscitò infatti la violenta reazione dei più scalmanati rappresentanti del GUF.
Il pensiero del Croce, del De Ruggero e dell’Omodeo, l’insegnamento di due illustri professori di Storia del Risorgimento, Carlo Morandi e Walter Maturi, erano questi il fondamento di quella formazione liberale non conservatrice, che fu profonda nella grande maggioranza degli studenti pisani (qualunque fosse il loro personale orientamento ideologico e pratico), anche di quei giovani che, militanti nel GUF, partecipavano ai Littoriali esprimendo idee a volte audacissime - ad esempio - sul colonialismo o sul sindacalismo, spesso con la coscienza di far solo fronda interna al partito fascista.
Come immagine emblematica della posizione di moltissimi studenti e professori dell’Università pisana di fronte allo scoppio della guerra, mi è rimasto in mente l’atteggiamento impassibile di Guido Calogero - quel fatidico pomeriggio del 10 giugno 1940 - nella sua decisione di proseguire gli esami di Storia della Filosofia, nell’aula IX, dove si era appena spenta la eco della lettura che egli aveva fatta, nel suo corso, della Filosofia della pratica di Croce e delle discussioni che ne erano seguite con noi alunni.
Eppure gli studenti pisani, quando la Patria - sia pure sotto il dominio della dittatura fascista - li chiamò alle armi, fecero il loro dovere militare, molti portando certo nel nuovo impegno di combattenti uno spirito tutto diverso da quello della ideologia ufficiale che una propaganda incolta e banale cercava di imporre alla guerra, moltissimi traendo dalla stessa esperienza bellica l’occasione che rendeva finalmente operanti, vive, attuali, tante lezioni apprese nelle aule universitarie.
Giovani studenti, uno dei primi volumi a cui con istintivo slancio corse la mia mano, la prima volta che, reduce dai campi di prigionia nazisti, rimisi il piede in una biblioteca, fu il fascicolo 1946 degli Annali della Scuola Normale Superiore: e l’occhio percorse subito, avidamente, la pagina del discorso con il quale Luigi Russo riapriva la cara, vecchia Scuola. E mi si gelò il cuore nel leggere di tanti compagni della Normale, del collegio Medico, del collegio Mussolini, della Università caduti in guerra, dispersi in Russia, spenti nei campi di sterminio, uccisi nella lotta partigiana!
Tanti! Due soli erano caduti fra gli avversari della libertà; e il loro professore volle ricordarli ugualmente, come vittime essi stessi della dittatura in cui avevano creduto (ma chi conosce i misteri dell’animo?), tutti accomunando in un doloroso atto di pietà. Non poteva darsi ai giovani, riaprendosi la Scuola Normale nel clima della rinnovata libertà, più austero, nobile insegnamento del religioso rispetto per la persona umana, fondato su una lunga tradizione di cultura.
Per questo impegno di resistenza al Fascismo che ebbero gli studenti e i professori dell’Ateneo pisano, per la loro tradizione, che discende dal primo Risorgimento, di correre generosamente all’azione armata, quando occorra, per difendere i valori di libertà e di dignità umana coltivati e approfonditi nello studio e nella ricerca scientifica, per questi motivi, o giovani, ho ritenuto veramente felice il suggerimento del Magnifico Rettore di ricordare brevemente a voi, in questa celebrazione risorgimentale, la resistenza politica e morale degli italiani al Nazifascismo.
I fatti, drammatici ed eroici, sono noti: è storia di ieri.
Già all’indomani dell’improvviso e impreparato armistizio dell’8 settembre 1943, fuggiti al Sud il Sovrano, la Corte, il Governo, gli alti comandi militari, si svolge a Roma il primo atto della Resistenza: a Porta San Paolo, alle forze dei Granatieri che si oppongono ai carri armati tedeschi si affiancano ben presto, con moto spontaneo, numerosi civili, che imbracciano decisamente le armi: sono popolani, borghesi, intellettuali.
Il primo caduto della Resistenza è un giovane professore di Liceo. Il 27 insorge Napoli: una insurrezione corale, spontanea, immediata, ardente, che libera la città dai tedeschi avanti l’arrivo delle truppe alleate, il 10 ottobre.
Intanto nel centro e nel nord della Penisola militari sbandati, ebrei, noti vecchi antifascisti e giovani animosi cominciano a prendere la via della montagna. Le loro file si ingrossano sempre più di perseguitati politici, di giovani che si rifiutano di rispondere alla chiamata di leva, di tutti coloro il cui animo si ribella alla crescente durezza della dominazione tedesca e della rinata e inasprita dittatura fascista. E comincia subito a delinearsi l’organizzazione politica e militare della Resistenza, per opera dei partiti antifascisti che si sono già da tempo riorganizzati e che dal 1942 hanno ripreso i contatti fra loro raggiungendo finalmente l’accordo di un comune impegno di lotta contro la dittatura. Il 9 settembre si costituisce il CLN, e da questo viene stabilito un comando militare dal quale dipenderanno le varie formazioni.
Le formazioni militari di partigiani organizzate cominciarono a operare fin dal novembre 1943 nel Piemonte. La prima organizzazione fu in bande, poi, crescendo il numero dei partigiani combattenti, in divisioni e brigate. La guerriglia partigiana vera e propria divampò in tutta l’Italia centrale e settentrionale nell’estate del ‘44: nell’ottobre successivo le forze armate della Resistenza giunsero a impegnare da sei a otto divisioni tedesche delle 25 che erano dislocate in Italia.
Nelle città operavano fin dal novembre ‘43 i GAP (gruppi d’azione patriottica), impegnati in atti di sabotaggio e attentati; mentre nelle campagne, sopratutto in quelle emiliane, agivano le squadre d’azione patriottica (SAP), con il compito di difendere la popolazione dalle requisizioni, dalle chiamate al lavoro obbligatorio, dalle retate.
Fu, la Resistenza, un movimento di popolo, perché vi parteciparono indistintamente tutti i ceti: contadini e professionisti, impiegati e operai, ufficiali di carriera e sopratutto intellettuali, studenti, professori, uomini di lettere e di scienza. Non posso non ricordare, qui, due nobili figure di professori universitari coraggiosamente prodigatisi nella Resistenza: Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova finché non fu costretto a darsi alla macchia, e Federico Chabod, leggendario partigiano della Valtournanche e della natia Valsavaranche, strenuo difensore della italianità della Val d’Aosta, e sapiente preparatore della sua autonomia.
Statistiche parziali, redatte per il solo Piemonte, danno le seguenti percentuali: operai 30,51%; classi medie 29,83%; contadini 20,39%; artigiani 13,63%; classi agiate 5,64%. Dal punto di vista sociale e politico il fatto nuovo, e più importante, fu la relativamente massiccia partecipazione dei contadini, che per il passato erano rimasti estranei se non ostili ai movimenti rivoluzionari della nostra storia.
La Resistenza alla dittatura fascista e all’oppressione nazista fu dunque un vero movimento popolare, il più democratico, il più vasto della storia d’Italia. Alla fine della guerra ottennero il riconoscimento di partigiani combattenti ben 232.814 persone, mentre ad altre 125.714 fu riconosciuta la qualifica di «patriota», cioè di collaboratore attivo e costante della Resistenza. Ché infatti, accanto ai combattenti delle formazioni militari e ai sabotatori e agli attentatori dei gruppi d’azione, innumerevoli furono gli uomini, le donne, i giovanissimi, che si prodigarono in tutti i modi, correndo a ogni istante pericolo di vita per sé e per i familiari e rischiando la distruzione della casa e degli averi, per recapitare notizie e ordini, per assistere, sfamare, curare partigiani, per rifugiare ebrei, prigionieri alleati e perseguitati d’ogni idea e nazione, per procurare ai ricercati dai nazifascisti un documento falso, una tessera alimentare, un avvertimento salvatore. In queste oscure, ma preziosissime azioni di solidarietà e sostegno per i partigiani e di vera e propria Resistenza contro il Nazifascismo innumerevoli volte si fecero, da un momento all’altro, eroi, con spontanea naturalezza, contadini, montanari, piccoli borghesi di città, operai, semplici donne di casa, poveri preti.
Il tributo di sangue e di sofferenze non si misura soltanto con le pure tragiche cifre di 72.500 caduti (compresi i civili) e di 39.167 mutilati e invalidi. Quante piaghe, quante lacrime, quante perdite e distruzioni, quanti dolori sono rimasti occulti! I locali di via Tasso, la «Pensione Jaccarino» e il «terzo braccio» di Regina Coeli a Roma, la «Villa Triste» a Firenze, la sede della banda Koch a Milano e altri, tanti altri luoghi di tortura sono nomi e ricordi che fanno ancora rabbrividire. E, quasi sempre, uomini e donne della Resistenza sopportarono con sovrumana fermezza quelle sevizie.
Non meno tragici furono i patimenti che eroicamente sopportarono i seicentomila internati militari italiani nei campi di concentramento nazisti: essi preferirono affrontare a viso aperto, serenamente, la fame, il freddo, le sevizie e spesso - anche - lenta morte, pur di non cedere alle lusinghe di un ritorno in patria con i fasci littorii al posto delle stellette! E nell’Italia meridionale, pur lontani dalla tragica esperienza delle crudeltà nazifasciste, i giovani militari e ufficiali si arruolarono generosamente nelle divisioni del Corpo Italiano di Liberazione, che a Cassino e altrove vollero affrontare i combattimenti più aspri per riscattare l’onore delle nostre armi.
Il volontarismo della Resistenza ha rinnovato ed esaltato la tradizione del volontarismo risorgimentale. Come nelle giornate gloriose delle insurrezioni e delle battaglie del Risorgimento, e ancor più che allora, il popolo italiano, fino ai ceti più modesti, ai contadini, ai montanari, ebbe nella Resistenza l’occasione, finalmente, di «fare da sé»: tutti, anche gli umili, i poveri, i deboli, i vecchi, i giovanissimi ebbero l’esaltante coscienza di poter fare qualcosa, per se stessi, per il popolo tutto, per la Nazione, di poter compiere un’opera, anche modesta, ma pur sempre importante, se non altro per il rischio supremo che ogni atto di Resistenza comportava. Lo dimostrano il fervore della totalitaria, impegnata partecipazione popolare alla vita politica e amministrativa delle piccole «repubbliche» che ebbero breve, fervida vita nei territori nei quali i partigiani riuscirono ad affermare il loro completo controllo. La spiegazione di tanto generoso eroismo sta nel fatto che - come ha bene notato Vittore Branca - «la Resistenza è stata soprattutto un fatto morale, un imperativo di ogni coscienza retta; è stato l’eccezionale riflettersi in senso sociale di una ribellione individuale alla violenza, all’ingiustizia, al dispregio della persona umana». In questo carattere di insurrezione morale, prima che politica, la Resistenza ha rinnovato i motivi più profondi del movimento risorgimentale.
La circostanza di dover combattere ancora una volta contro la crudele occupazione tedesca nelle stesse città e sugli stessi campi di battaglia dell’epopea risorgimentale, e la necessità di condurre una nuova vera e propria guerra di indipendenza contro il Reich che si era praticamente annesso non solo l’Alto Adige, ma anche il Trentino e - come furono chiamati dai tedeschi - i territori della costa nordadriatica, terre sacre ai ricordi dell’irredentismo dell’ultimo secolo di storia italiana, diedero ai partigiani, ai patrioti, a tutti i resistenti la esaltante coscienza di essere i protagonisti di un nuovo Risorgimento. Un nuovo Risorgimento che faceva rivivere il mito di quella che era stata l’epopea di padri.
Questo stato d’animo, questa coscienza popolare riflettevano con rara armonia - tenuto conto delle deformazioni e delle esaltazioni che ogni mitizzazione popolare comporta - le idee e la propaganda degli uomini di cultura e dei politici più impegnati nella Resistenza.
Nella sua acuta prolusione torinese il Garosci ha molto bene sottolineato come nell’opposizione al Fascismo gli uomini di cultura, i politici, i partiti stessi si siano sempre più nettamente richiamati e ricollegati alla tradizione risorgimentale. È nota la tesi crociana del Fascismo inteso come «malattia morale», come un bubbone insorto nell’organismo vigoroso della nazione italiana che aveva proseguito e sviluppato, con la democrazia giolittiana, la tradizione liberale del Risorgimento; per cui occorreva tagliare di netto il bubbone e riprendere i fili della tela bruscamente interrotti. Le formazioni partigiane di orientamento liberale, e lo stesso partito liberale nel CLN, si ispiravano a questi concetti: riprendere la tradizione risorgimentale restaurando le istituzioni e il sistema di vita prefascisti. Nell’ambito liberale e in questo ordine di idee finì con l’entrare molta parte delle formazioni partigiane autonome, che in principio avevano rifiutato ogni impostazione politica della Resistenza armata al Nazifascismo. Gli stessi reparti di guerriglieri costituiti da militari sbandati dell’esercito regio e inquadrati da ufficiali, per lo più effettivi, che intendevano soprattutto rimanere fedeli al giuramento prestato al Sovrano e servire il Governo legittimo, quello del Sud, furono animati dal mito risorgimentale, per l’idea di un ritorno alle più pure tradizioni patriottiche e guerriere della dinastia, finalmente liberata dal controllo fascista.
Ma al Risorgimento si richiamavano anche quegli uomini di cultura e di azione, anche quei partiti che consideravano il Fascismo come il risultato finale, la conseguenza logica di un insufficiente sviluppo rivoluzionario e democratico del movimento risorgimentale e soprattutto della vita economica, sociale e politica del post-risorgimento, sicché ritenevano necessario che la Resistenza non si limitasse ad atti di sabotaggio (sia pur efficaci), ma si risolvesse in una vasta insurrezione popolare, quella appunto che sarebbe mancata nel Risorgimento, e determinasse un radicale e completo rinnovamento nelle strutture e nelle istituzioni del Paese.
Queste idee che animavano le formazioni «Giustizia e Libertà» e il Partito d’Azione avevano il loro lontano fondamento nella polemica di un libro famoso del Gobetti (Risorgimento senza eroi) che non intendeva negare ogni positività storica a quell’epoca gloriosa, ma soltanto sgonfiare la mitizzazione, spesso conservatrice e oleografica, delle grandi personalità e mettere in rilievo come queste, quando furono veramente grandi, seppero acquistare il carattere di rappresentanti di tutto un popolo. I germi di una rivoluzione popolare, appunto, il Gobetti aveva individuati nel Risorgimento, e una rivoluzione liberale innovatrice, mediante l’insurrezione armata, gli Azionisti e i democratici di sinistra volevano, nel solco della migliore tradizione risorgimentale, a completamento di questa.
Anche i comunisti, nella lotta della Resistenza, finirono con l’ispirarsi al mito del Risorgimento. Nel 1931 il Togliatti scriveva che «è assurdo che vi sia un Risorgimento da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questo sia il compito dell’antifascismo democratico». Nei suoi quaderni, in carcere, il Gramsci scriveva del Risorgimento come di rivoluzione borghese, e discuteva di mancata rivoluzione contadina e di mancata trasformazione agraria. Ma dopo il 1934, e soprattutto poi nella lotta della Resistenza, pur denunziando la necessità di una radicale riforma di strutture e di una ricostruzione dello Stato su basi del tutto nuove, II Partito Comunista fece proprio il mito risorgimentale, ricollegandosi al filone democratico del Risorgimento, emblematicamente espresso nel nome di Garibaldi dato alle formazioni partigiane comuniste. Posizioni simili tennero le formazioni partigiane «Matteotti» e il Partito Socialista, che però poteva ricollegarsi direttamente a precedenti risorgimentali e a una propria lunga tradizione post-risorgimentale.
Particolarmente significativo e importante fu l’atteggiamento dei Cattolici: alla Resistenza parteciparono non solo, individualmente, uomini di cultura e politici, ma masse di Cattolici, in proprie formazioni partigiane, che furono numerose specialmente in Lombardia e nel Veneto. Canoniche, abbazie, vescovadi, gli stessi palazzi apostolici protetti dalla extraterritorialità accolsero e rifugiarono perseguitati di ogni nazione e di ogni fede. Molti vescovi e curati offrirono alla furia tedesca la propria vita in cambio di quella dei fedeli; numerosi furono i preti caduti nella Resistenza.
Come scrisse incisivamente lo Chabod, il fatto più importante della storia d’Italia dopo la caduta del Fascismo è certo l’accesso dei Cattolici al governo, preparato dall’attiva partecipazione delle masse cattoliche, dei vecchi dirigenti del Partito Popolare e del sindacalismo bianco, dei giovani esponenti delle associazioni cattoliche alla lotta della Resistenza.
Ora i Cattolici antifascisti, vecchi intransigenti che avevano avversato la statolatria del Fascismo, uomini di cultura di formazione cattolico-liberale o uomini di fede con ricordi modernistici, vecchi sindacalisti, giovani aperti alla ispirazione democratica del personalismo di Mounier o del pensiero di Maritain, semplici uomini disdegnanti l’etica guerresca e l’odio razzista erano maturi per una sincera progressiva accettazione delle tradizioni risorgimentali, e concordavano piuttosto con i liberali, che volevano il ritorno a queste tradizioni e al sistema politico prefascista, che con gli Azionisti e i marxisti, i quali invocavano un rinnovamento totale delle strutture economico-sociali e delle istituzioni. Consapevoli del loro pieno inserimento nella vita politica del Paese, avvenuto mediante l’assunzione di gravose responsabilità pubbliche e la partecipazione attiva alle lotte armate durante la Resistenza, i Cattolici aspiravano solo a portare nelle vecchie strutture dello Stato - mediante l’opera dei loro rappresentanti nel Governo - quelle riforme che avrebbero annullato vecchi contrasti e ostinate diffidenze. Si ponevano così le premesse di quel profondo ripensamento della storia risorgimentale e post-risorgimentale, e in ispecie della posizione della Chiesa e dei Cattolici italiani di fronte allo Stato liberale, che ha impegnato seriamente la storiografia cattolica in questo dopoguerra.
Come ha ben detto il Garosci, il richiamo al Risorgimento da parte dei partiti antifascisti nella Resistenza, fu soprattutto «una mobilitazione di forze, di motivi, di posizioni»: tranne che i liberali e - solo in parte i democristiani, gli uomini politici dei partiti collegatisi nel CLN volevano creare una realtà politica e costituzionale del tutto nuova, su nuove basi, dando un taglio netto alla continuità dello Stato monarchico che era stato il risultato del Risorgimento nazionale; volevano che, nell’ondata dell’insurrezione popolare, un nuovo Stato si sviluppasse sulle fondamenta del CLN, con la forza di un esercito (il Corpo dei Volontari della Libertà) sorto spontaneamente dal popolo. Illuminanti sono le istruzioni inviate da un commissario politico del Partito d’Azione ai partigiani delle formazioni «Giustizia e Libertà» del settore di Cuneo:
l) «ficcare ben chiaro in testa ai partigiani che essi sono soldati di un esercito nuovo e rivoluzionario, esercito di liberazione nazionale, il quale non si identifica, e nemmeno succede, come erede e continuatore, al vecchio esercito regio, così miseramente fallito;
2) spiegare che cos’ è il CLN: unico organo che, dopo la fuga del re, coi suoi cortigiani e ministri, ha alzato la bandiera della Resistenza attiva contro i nazisti e i fascisti... Si tratta in sostanza del vero ed autentico governo nazionale nell’Italia invasa, e solo da questo governo, e non dal governo Badoglio, le formazioni partigiane possono ricevere ordini e direttive...».
Come queste esigenze non abbiano trovato concreta attuazione, per varie cause di carattere internazionale ed interno, cause politiche, militari, diplomatiche, economiche, è lunga storia che non è qui il caso di narrare e discutere. Certo, alla fine dell’anno 1944 fu costituito un Comando Superiore Partigiano con a capo un generale dell’esercito regolare italiano, Cadorna; e il 26 dicembre il CLNAI rinunziava alla pretesa di essere il germe che si sarebbe sviluppato nel nuovo Stato che i partiti di sinistra volevano sorgesse dalla insurrezione, e accettò - invece - di esercitare i suoi poteri come delegato e rappresentante del Governo di Roma. Assicurando così la continuità dello Stato ereditato dal Risorgimento, tuttavia i partiti del CLN, con l’ottenuto impegno della convocazione di una Costituente e della indizione del referendum costituzionale, si accingevano a creare una nuova storia, quella che oggi viviamo, nuova soprattutto per le profonde novità determinatesi, dopo la guerra, in campo culturale, scientifico, tecnico, economico e spirituale in tutto il mondo.
In realtà, dunque, la Resistenza non fu e - nelle menti più avvertite - non volle essere un secondo Risorgimento: nella storia non si danno mai ritorni. Ma il mito del Risorgimento, sì, animò combattenti, patrioti, favoreggiatori, esaltò le masse.
Ben a ragione pertanto l’ultimo ministro della Cultura Popolare, il fascistissimo Polverelli, invitava gli organi della propaganda a evitare, perché «controproducente», ogni richiamo al Risorgimento per incoraggiare i combattenti della «repubblica di Salò».
Lo spirito del Risorgimento era diventato ormai il mito della Resistenza.
Da: Annuario dell’Università di Pisa per l’a.a. 1964-65, pp. 8-18