1876 - Inaugurazione a.a. 1876-1877

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Pisa, 16 novembre 1876.

Discorso inaugurale per la riapertura dell’anno scolastico 1876-77 nella R. Università di Pisa

 

Che a me, nuovo venuto in questa illustre Università, abbiate voluto, colleghi chiarissimi, commettere 1’onorevole incarico del discorso inaugurale, è stata, e lo sento, una cortese dimostrazione di ospitale accoglienza, della quale è giusto che io sul cominciare vi renda qui pubbliche grazie. Commosso e grato della vostra squisita cortesia non me ne sono però meravigliato, che so per lunga esperienza, quanto, dove abbonda la scienza, gli animi sogliano essere inclinati a generosi sentimenti. Se non che, di non piccolo impaccio mi è stata la scelta medesima del tema da trattare innanzi a voi, parendomi assai facile lo sdrucciolare o in vuotaggini pompose, o in minute e noiose quisquilie. In questa perplessità, discorrere del compito, e della efficacia dell’insegnamento scientifico a dì nostri mi è parso argomento, che possa riuscire meno gravoso a voi, e men disadatto alla presente ricorrenza. Questo tema poi s’intreccerebbe con l’erudito discorso, col quale un mio collega ed amico inaugurava, l’anno scorso, gli studi. Pratico de’ più riposti documenti della patria letteratura, raccolse egli con meravigliosa industria, e con infaticato amore gli echi dei canti, precursori del risorgimento italiano; e dimostrò tanta speranza avessero alimentato negli animi, prostrati dalla nemica fortuna. Sì, noi vedemmo le generazioni, incalzate dal tempo, passare, ed impotenti di legare a quelle che succedevano l’eredità di una patria, tramandarne co’ fatidici canti il desiderio e la speranza, come la fiaccola, che i giuocatori dell’antichità si passavano accesa di mano in mano. La tradizione letteraria teneva luogo della politica, e se la nostra storia mancava di un capo saldo, dove se ne annodassero le sparse fila, l’Ideale di un’Italia una, libera, e potente ristorava almeno il difetto di una troppo avara realtà. Forse di questo Ideale si abusò; ma chi vorrebbe saperne male a coloro, che altra vita non potevano vivere? E poi le memorie di Roma antica scusavano abbastanza le fantastiche grandezze de’ nostri poeti. Così quando un altro popolo, risorto poco prima di noi, tentava, di accingersi alle prove di una seconda vita, raccendeva prima il culto delle muse, delle leggiadre abitatrici di quella classica terra. La società de’ filomusi annunziava le eterie, e riscaldava gli animi volenterosi dei filelleni. Ed è fuor di ogni controversia questo fatto, che sì alla Grecia, come all’Italia la benevolenza dell’Europa civile è derivata in gran parte dalla memoria delle loro immortali letterature, e da un certo senso di riconoscenza che tutti provavano per quelle antiche maestre di civiltà.

L’entusiasmo però finisce, quando, maturati i destini, un popolo passa dalla poesia nella storia. L’ideale sconfinato, impalpabile, trasparente si sfiocca all’urto ruvido della vita: la sua morbidezza nasceva dal difetto di consistenza; si piegava, s’insinuava, perché non resisteva; traspariva, perché vuoto; appagava tutti quanti, perché non aveva contorni precisi, ed ogni fantasia lo poteva contornare e colorire a modo suo. Passando nella vita storica è forza che si restringa, che si rimpolpi, che, urtando rimbalzi, che perda di splendore quanto acquista in solidità. Avviene in questo caso il fatto, che un nostro poeta, rammaricandosene, esprimeva così “ahi ahi! ma conosciuto il mondo, non cresce, anzi si scema”. E se sia davvero diminuzione, non vo decidere; certo è però che la vita ideale, è la vita storica, appartengono a due periodi diversi: si canta quando si spera, si lotta quando si possiede.

A noi è aperta oramai una palestra nuova, e la poesia non ci basta più: assaporata la voluttà: delle lotte aspre, ma feconde della vita politica, mal ci sappiamo più contentare delle fanciullesche schermaglie della fantasia. Poteva il Leopardi lodare l’Alfieri dell’aver mosso guerra ai tiranni su la scena; ma egli medesimo si accorgeva, ch’era ben misera cosa quella sterile guerra: a noi ora è mestieri scendere fra la polvere della vita, mescolarci nel tumulto delle passioni, nel conflitto degli interessi se vogliamo il trionfo delle idee, che pur troppo da quel cozzo debbono fatalmente sprigionarsi, come la scintilla scoppia dalla selce percossa. In questo combattimento verace, sola armatura che ci possa proteggere e servire, è la scienza; perciò se la tradizione letteraria ci è giovata a mantener vivo l’ideale di una patria futura, la cultura scientifica, mutate le condizioni storiche, è quella che ci è necessaria a mantenere ed a fortificare il presente Stato italiano. L’entusiasmo, l’impaziente desiderio, le prove spensierate che ieri ci giovarono, oggi potrebbero riuscire pericolose; che mal si addice ai propositi virili ciò che si consente, o si perdona all’inesperta giovinezza. E che noi tocchiamo la virilità, se noi dimostrasse la nostra coscienza medesima, apparirebbe dal corso che la civiltà ha fatto in Europa da due secoli a questa parte: corso al quale noi, benché tardi, siamo pure inevitabilmente aggiogati. Il cammino fatto dagli altri ci additerà quello che ci rimane a percorrere: gli sviamenti e le cadute altrui ci ammoniranno delle cautele da usare per guardarcene.

L’incivilimento, voi lo sapete, non comincia, se non quando i bisogni urgenti della vita quotidiana son sodisfatti; quando si è accumulato tal capitale di ricchezza, da lasciare alcune menti libere di volgersi ad una produzione ideale; imperciocché quel popolo è veramente civile, che sa stampare su la natura l’impronta della propria attività, e che le forze selvaggiamente indipendenti sa far servire a consapevoli disegni. Il nuovo incivilimento in Europa cominciò appunto dopo cessate le invasioni barbariche, e dopo che le guerre fatte più rare, o per stanchezza o per speciale perizia che vi si richiedesse, lasciarono ad un maggior numero di gente tempo ed ozio di applicarsi agli studi. Sicché questa applicazione, che per lo innanzi era stata chiusa tra i cancelli de’ chiostri, uscì all’aperto, e divenne più generale. L’aria aperta fa sempre bene: ma sul primo uscire, benché rifatti da laici, gli studi si risentirono del chiostro e del tempio, né variossene gran fatto il tema ed il metodo. Le controversie teologiche, e la letteratura classica, di cui la Chiesa aveva adottato il linguaggio, furono la prima palestra, dove saggiò il suo ingegno l’Europa rinascente e quindi provennero due avviamenti, la Riforma e 1’Umanismo; quella più sollecita del concetto religioso, fatto più ampio dal concorso del laicato; questo, più sollecito della lingua e dello stile. E la Riforma prosperò principalmente in Germania, dove più addentro penetra il sentimento religioso; l’Umanismo, invece, in Italia, sede antica della civiltà latina.

Procedendo oltre, è chiaro, che l’intelletto umano dovesse volgersi a più vicini argomenti; e cominciò dall’Inghilterra, sola delle nazioni moderne dove la vita; politica fosse cresciuta per tempo, e dove quindi non poté aver presa la prevalenza religiosa. Qui anzi, come appresso gli antichi, la Chiesa fu quasi sempre una funzione dello Stato, e dopo la Riforma questo intreccio, e questa subordinazione acquistarono più spiccato rilievo. Nel secolo diciassettesimo difatti le controversie religiose in Inghilterra si complicarono talmente con le politiche, che le prime rimasero totalmente al di sotto, e servirono di semplice pretesto alle seconde. Il puritanismo, la forma religiosa più rigida, divenne esso medesimo con gl’Indipendenti fautore della causa popolare, e quel fanatismo passeggero sfumò, non appena che il trionfo di quella causa fu assicurato. Fin dal principio anzi ne appariscono manifesti gl’indizi. Chi nel linguaggio apocalittico di Cromwell non intravede covati ben altri disegni? E chi non si accorge che la parola di Dio questa volta significa bisogni ed interessi mondani? Ben presto caddero anche i veli del linguaggio, ed il gergo puritano, e le aeree battaglie che gli angeli combattevano nel Paradiso perduto di Milton, e l’allegorico Viaggio del Pellegrino di Bunyan cessero il luogo a più serie ricerche. Swift mise in canzone sotto nome di Eolismo la pretesa ispirazione dello Spirito Santo, e Locke, ritornando dall’esilio sul vascello medesimo che portava nell’isola nativa una nuova dinastia, prese a cercare con industre sagacia il processo delle idee umane, e scrisse il Saggio su l’intelletto.

La filosofia la rompeva a viso aperto con la tradizione del passato, e si spiccava non pure dalle nebulose speculazioni del medio evo, ma da quell’ultimo residuo che se n’era conservato nell’Innatismo cartesiano. Altri tempi, altri problemi. L’Inghilterra avvezza dalla sua antica costituzione politica a trattare con la salda realtà della vita, era quindi sforzata ad alimentarne la sua religione, la sua letteratura, la sua filosofia: Guglielmo III compie Enrico VIII; Pope compie Milton, Locke compie Bacone.

In quel torno ancora Newton equilibrava l’universo; e trovava nel sistema della natura quell’armonioso concerto di forze ripugnanti, su cui i suoi antenati, inconsapevoli, per una, maravigliosa divinazione del buon senso politico, avevano impiantato l’edifizio della costituzione dello Stato. Agl’Inglesi la scienza della libertà era nata dall’uso della libertà medesima, e da quella scienza tutta umana s’erano poi essi, di grado in grado, sollevati a cogliere il complesso delle cose. Questo processo tutto loro proprio ha conservato alla loro scienza quell’indirizzo pratico, che talvolta, esagerato, può darle un aspetto di utilità eccessiva; ma che la trattiene ora, come l’ha trattenuta sempre dallo smarrirsi nelle ondeggianti ed indefinite regioni del mondo astratto.

In Italia era succeduto tutto il contrario, e se il Galilei aveva sgombrato a Newton le vie del firmamento; se le leggi della meccanica scoperte dal sommo fisico pisano erano state la preparazione scientifica di quelle della gravitazione universale; il Galilei, purtroppo, non era stato preceduto da Locke, e viveva a grande distanza dalla franchigie inglesi. In Italia ed in Inghilterra la scienza sperimentale era nata da bisogni diversi, e sotto diverse condizioni: tra noi, era nata dalla insufficienza della vecchia metafisica, e da una critica ingegnosa dei vieti sistemi; appresso gl’Inglesi, invece, dal contatto della società civile, dall’ambiente libero che l’attorniava, e dal genio positivo della razza anglosassone. Quindi provenne altresì la sproporzionata fortuna dei’ due sommi scopritori, e la disuguale azione che esercitarono sui destini de’ loro paesi. Il precursore italiano muore prigioniero ad Arcetri, colmo di amarezze, e condannato al silenzio; mentre il Newton siede in Parlamento, è chiamato a pubblici uffici, e scende gloriosamente a riposare nelle tombe regali, di Westminster fra l’apoteosi del popolo inglese e gl’inni de’ poeti. L’Inghilterra, libera, era in grado di apprezzare la potenza delle idee; l’Italia, doppiamente schiava, le temeva. Circolavano esse, quasi occulte e timorose, nelle Accademie, patrimonio di pochi; ma di uscire all’aperto non si attentavano, e dalle scuole perfino venivano escluse. Né quel metodo medesimo si osò applicare oltre alla cerchia de’ fenomeni fisici; doveché in Inghilterra il principale soggetto erano stati i fatti sociali. E, chi ben vi guardi, anche oggidì questa differenza dura nell’indirizzo dei due popoli, ed a noi mancano quelle ricche applicazioni delle scienze morali, che in Inghilterra vistosamente abbondano. Si vede chiaro, che la nostra civiltà prese le mosse dall’Accademia, e l’inglese dalla tribuna parlamentare. Che se un frequente commercio d’idee ci fosse stato possibile con quel popolo, nel periodo del nostro risorgimento; se a viva forza non ce ne avesse stralciato la vigile gelosia dell’indice e della censura; se più per tempo fosse stato fattibile il raffronto che ora cominciamo a fare, certo più di ogni altro paese, l’Inghilterra, col più reciso contrasto, ci avrebbe utilmente modificati. Al nostro fervido ingegno, alla nostra indole poetica, alle nostre classiche tradizioni sarebbe stato rimedio salutare il senso pratico della vita, il contatto immediato della realtà. Invece, ci occorse fare più lunga giravolta; aspettare che la coltura inglese passasse prima attraverso della Francia, e che le feconde idee di quella gloriosa schiera di pensatori, che riempirono il nostro secolo diciassettesimo, lentamente si propagassero. Continuammo intanto quella vita poetica ed ombratile, che appresso di noi cominciò più presto, e sventuratamente finì più tardi.

La Francia di quei tempi a noi più contigua di luogo e d’idee navigava anch’essa in acque forse peggiori delle nostre; certo non aveva né il Galilei, né il Sarpi, né il Torricelli, né il valoroso drappello che si adunava nell’Accademia del Cimento. Dalla pania teologica anzi non l’era riuscito dispiccarsi; che né lei soccorse la critica adulta della filosofia italiana, né il soffio potente della libertà inglese. Ingolfata nelle guerre religiose, in cui si laceravano a vicenda gli Ugonotti e la Lega, dopo ripreso alquanto di fiato per l’Editto di Nantes, ci si rituffava con le dispute su la grazia e con l’implacabile inimistà fra Molinisti e Giansenisti. A corte, alla Sorbona; al Parlamento, a Portoreale quella gara ferveva, or palese or occulta, nociva sempre. Le menti si distraevano da più serie occupazioni, e i migliori scrittori ci si sciupavano dietro. Quando io vedo ingegni di alta levatura, uomini di polso come Arnauld, Saci, Bossuet, e perfino Pascal, il più limpido ragionatore di materie irragionevoli, non posso a meno di sentire un profondo senso di rammarico, e di lamentare tanto capitale d’ingegno miseramente dilapidato.

Che se Royer-Collard diceva, che chi non conosce Portoreale, non conosce tutta la natura umana; se il Cousin aggiungeva, che in nessun luogo del mondo si era raccolto in sì breve cerchia tanto genio e tanta virtù; noi non dubitiamo di affermare, che ciò può esser ben vero, ma che al genere umano quell’ingegno e quella virtù furono perfettamente inutili.

Il mondo vivo e presente, quello che più premeva studiare, era perduto di vista; i rapporti reali delle cose e degli uomini erano posposti alla ricerca d’influssi arcani ed inescogitabili. Così pargoleggiava una letteratura, che avrebbe potuto essere leva di straordinaria potenza. Il teatro francese, ignaro degli ardimenti di Shakespeare, non osava trattare fatti nazionali contento agli antichi o agli stranieri, dove la fantasia si credeva atta a spaziare più liberamente. Solo allo stile badossi accuratamente, ed il buon gusto della lingua francese può dirsi nato in quel secolo, e proprio nel trentennio, che durarono i geniali ritrovi di Madama Rambouillet. La forma fu tersa, graziosa, elegante, ma il pensiero vi si muoveva timido, e circospetto. Le audaci ipotesi di Cartesio non erano state tollerate, e soli ardimenti che vi si permettessero erano i motti spiritosi. Ne scoccavano ne rimbalzavano da tutte parti; schermaglia innocente. Voiture approvava; applaudiva Madama di Sablè, orgogliosa di passare per l’Aspasia francese. Se non che, nota un illustre scrittore, quantunque ammiratore di questi tempi e di questa letteratura, in tal ritrovi parigini c’era forse Aspasia, ma Pericle non c’era. Il Pericle di quel tempo, il cardinal Richelieu, non solo non li frequentava, difatti, ma non li vedeva di buon occhio neppure, ed al Corneille, per una opportunità politica, non si peritava di contendere le immortali bellezze del Cid.

A tal punto era la Franchi allora: una letteratura ricca, smagliante, ma vuota; splendida, come la sua corte, ma al par di lei costretta dal cerimoniale, ed impedita di rappresentare ogni altro sentimento, che ai cortigiani non fosse accetto. I frequenti commerci tra la corte di Luigi XIV, e quella di Carlo II, oltre che insufficienti a far sospettare la verace vitalità del popolo inglese, servivano piuttosto a trasportare ai là dalla Manica l’orpello della corte francese: i due popoli tanto vicini s’ignoravano l’un l’altro.

Il secolo appresso soltanto, circa la metà del secolo decimottavo cioè, le istituzioni politiche dell’isola vicina penetrarono in Francia. Montesquieu pubblicava il 1748 lo Spirito delle leggi, e richiamava l’attenzione de’ suoi concittadini sui congegni di quella legislazione, e di quel governo così libero e così vigoroso. Un altro scrittore, il Voltaire, balestrato a Londra dall’esilio, aveva, anche prima, fatto aprire gli occhi su quel mondo sconosciuto, pubblicando il 1734 le sue Lettere filosofiche su gl’Inglesi. La pubblicazione aveva levato alto rumore, perché egli non solo vi toccava gli ordinamenti politici, come dipoi il Montesquieu, ma i religiosi, e la letteratura, e la filosofia e perfino l’industria e il commercio. Le tragedie di Shakespeare, le ricerche di Locke, le scoperte di Newton divulgaronsi in Francia sotto la splendida veste dello stile di Voltaire. Il petto della nazione intera si sentì allargato a respirare quelle aure fresche e vivificanti: un fremito di vita nuova circolò per la Francia, e la gran rivoluzione, con cui si conchiuse il secolo passato, si può dire fin d’allora concepita.

Nacque presto il disegno dell’Enciclopedia, e l’attività si volse alle scienze economiche e sociali: col raffronto si notarono più facilmente gli aggravi e gli sconci di quella monarchia, ch’era parsa sì gloriosa; si rise del vaniloquio teologico, si scorse la prepotenza della nobiltà, si sentì l’energia del popolo prostrata, l’ingegno ridotto a trastullarsi ed a mentire, la ricchezza pubblica sperperata, e cominciarono le amare invettive, e i non meno amari motteggi. Contro gli avanzi di quella inverniciata barbarie rivolse il flagello potente della sua critica, primo, più grande fra tutti il Voltaire, il quale non a torto diede a quel movimento il proprio nome. Nelle tragedie, nel frequente carteggio, negli articoli dell’Enciclopedia, nei dialoghi lucianeschi, nei trattati scientifici, assalì con ogni sorta d’arme le vecchie istituzioni del suo paese; né ristette, finché la Francia tutta non rise di quella intolleranza stolidamente feroce, di quella presuntuosa ambizione guerresca, di quella nobiltà tralignata, di quel clero ignorante, di quei dotti disutili, di quegli arbitri, di quelle spie, di quella Bastiglia che più tardi il soffio della rivoluzione doveva disperdere. Fu bene spietato quel riso; fu talvolta anzi eccessivo, quando dei benefizi passati non tenne conto; o quando co’ vizi di una società sfatta mescolò nel motteggio alcune innocenti virtù; ma nessuno scrittore nella storia ha avuto tanta efficacia nella trasformazione di un popolo, quanto il derisore Voltaire. Più che l’ira appassionata di Giangiacomo Rousseau valse quel riso beffardo, mordace, insistente. Per comprenderne bene il valore e gli effetti, bisogna trasferirsi col pensiero in que’ tempi, e conoscere que’ costumi: non sono lontani di un secolo, eppure quanto disformi dai no stri! Le scene sanguinose delle Cevenne, gli assassini legali di Sirven, e di la Barre, le lettere di cachet, i decreti del Parlamento promulgati ad inculcare l’insegnamento di Aristotile, e a proibire l’uso dell’emetico, le dissertazioni di Don Calmet, ed altrettanti fatti contemporanei ti danno la chiave della opportunità di quel continuo motteggiar volteriano. Oggidì tutto quel mondo è distrutto, e noi dobbiamo esserne grati a quell’operosa letteratura del secolo decimottavo, che sì validamente vi contribuì.

Ma fu ella altrettanto efficace nel ricostruire? Prima di rispondere faccio una semplice osservazione. La letteratura francese del secolo decimosettimo vinceva senza dubbio questa del decimottavo di vigore, di finitezza, di originalità; essa era intanto, con tutti questi vantaggi, riuscita impotente a modificare in meglio la civiltà de’ suoi tempi; che tra i miglioramenti non annovero le attillate cortigianerie, e le frasi ricercate che poi il Molière in due delle più belle commedie graziosamente derise. Qual è la ragione del divario fra la passata impotenza, e l’efficacia presente? E dove si può cercare, se non nella sodezza e nella profondità del pensiero, che prima sfiorava appena la superficie, ed ora pescava nel fondo? Senza il nutritivo riscontro della civiltà inglese, la letteratura francese non si sarebbe così presto rinvigorita, a segno, da commuovere, e far trasalire tutte le fibre di quella nazione. Che se la diffusione più pronta è da riferire alla maggior popolarità delle produzioni letterarie, l’impulso primitivo vien sempre, indispensabilmente dai risultati della scienza.

Questo importante divario merita qualche schiarimento.

Il pensiero umano, onde rampolla ogni coefficiente di civiltà, ha fondamentalmente un doppio aspetto: è intelletto e volontà, cioè a dire: è attività conoscitiva, ed attività pratica: discopre i rapporti delle cose, ed opera poi in conformità di questa cognizione. Or dunque, anzi tutto, l’azione dipende dalle conoscenze più o meno precise, che ne sono i motivi è più o meno buona, secondo che più o meno si accosta alla verità. E poi, presupposta anche nota la norma verace dell’operare, altri motivi, o passionati o interessati, possono concorrere a farnela deviare; dimodoché nel ponderare i fatti umani, pur rimanendo saldi i criteri etici, tu mal potrai decidere quale prenderà il sopravvento, se il motivo ideale, o l’interesse, e la passione dell’individuo. Cotesta oscillazione ed incertezza nella valutazione de’ motivi per rispetto alle singole persone si bilancia però nel considerare il tutt’assieme della storia: i motivi interessati si elidono, paragonati ai motivi etici; questi hanno più presa su gli uni; quelli hanno più presa su gli altri; il numero totale, al postutto, non ne rimane alterato. Da parecchi secoli, dacché prevalsero i precetti cristiani, se non da prima, nel mondo storico le massime morali sono perfettamente le stesse; ed intanto la somma della civiltà è in modo rilevantissimo cresciuta.

Perché tanto accrescimento in mezzo a tanta uniformità di precetti morali? La risposta non può essere altra che questa, che, cioè, le azioni, in quanto hanno un valore etico, possono importare ai singoli individui, ma non possono mutare il corso della civiltà. E se la civiltà muta; e se altra causa non può avere questa mutazione, salvo che il pensiero; e se levata di mezzo l’attività etica, rimane l’attività meramente scientifica; è pur giocoforza inferirne che sola l’attività scientifica, disvelatrice de’ rapporti delle cose, effettua questa mutazione; ch’essa sola opera costantemente con la esatta regolarità delle leggi fisiche, e che le idee, da lei prodotte, comprese che siano, investono le menti, le signoreggiano, e le trascinano fatalmente, irresistibilmente.

Le lettere, ingentilitrici de’ costumi, operando su noi, in quanto attività etica, ci commuovono esteriormente, rappresentandoci in idoli fantastici un ideale, al quale ci avviano, ci stimolano, ci attirano; ma per commuoverci si servono tuttavia delle passioni stesse; e sebbene le purifichino, e le nobilitino, pur troppo però non possono farle cangiar di natura, né infrenare abbastanza il loro impeto, né arrestare la loro turbinosa mobilità. Fondate su l’entusiasmo e sul sentimento, le lettere non possono creare quelle salde convinzioni, che sole resistono all’urto de’ pericoli, ed al rovescio della fortuna.

Emanuele Kant, sagace scrutatore di questa portentosa attività dello spirito umano, la quale, come iride, si frange in una molteplicità di colori posponeva di lunga mano le azioni ispirate dal momentaneo entusiasmo a quelle dettate dalla dura, dalla ingrata coscienza del proprio dovere. Il suo ideale erano i trecento di Sparta, i quali morendo credevano di non aver fatto altro, che obbedire alle leggi del proprio paese, anziché que’ mobili eroi che cedono alla tentazione di una gloria romanzesca ed avventuriera: presto inebriati, più presto pentiti, e sgomenti.

Ad ogni modo, tornando a noi, parmi evidente, che né l’entusiasmo passionato, né il carattere morale, soli di cui possa far tesoro la letteratura incivilitrice, conferiscono gran fatto sul progresso della civiltà. Non dico già che siano inutili, non dico che non siano anche questi da tenere a conto; ma sono forze parziali, elise da altre forze contrarie; sono forze né costanti, né generali; e poi in ogni caso l’efficacia delle idee è tanto più prevalente su di loro, quanto la convinzione che rampolla dal fondo della propria coscienza sovrasta all’influsso esteriore dell’esempio. Imperciocché non altrimenti che come esempio può giovare il più spiccato e più nobile carattere che si trovi nella storia; esempio non sempre imitabile, pel variare che fanno o l’energia dell’animo, o le opportune circostanze. Il carattere è incomunicabile, chiuso, direi, nel nocciolo della individualità; né la disposizione naturale si fortifica, se non quando le assidue lotte, provandola, e riprovandola, la ritemprano. E poiché le lotte sono più aspre, quanto più maligni corrono i tempi, perciò i caratteri eroici, d’ordinario, non spiccano, se non in periodi di decadimento: strano paradosso, ma pur vero, che l’eroismo brilli soltanto o nelle civiltà esordienti, o nelle civiltà volgenti a tramonto. Plutarco scrive le vite degli uomini illustri, quando manca la materia alla storia della civiltà. Stringendo in breve il mio pensiero, parmi che la civiltà cammini non già per forza degl’individui, ma per virtù delle idee. Guai a quel paese, i cui destini fossero indissolubilmente allacciati alla vita di un uomo, per grande che sia. Quando, dopo seguita la pace di Presbourg, Pitt moriva, la guerra gigantesca iniziata e combattuta da questo uomo straordinario fu continuata dallo spirito della nazione inglese: segno evidente, che Pitt non era altro, che l’eco fedele della coscienza del suo popolo.

Affinché nasca questa invitta certezza di rappresentare la coscienza di un gran popolo, un ideale subiettivo, indefinito, astratto non basta: occorrono accurate indagini, industriosi ragguagli, una bilancia esatta, dove si pesi la somma delle idee accumulate, e il progresso della loro diffusione; e poi la forza non meno poderosa degli interessi, e la resistenza della non vinta ignoranza, e l’impedimento de’ non distrutti pregiudizi. In tutto questo conflitto, tra questo rimescolìo, l’uomo di stato deve poter cogliere quella media intellettuale, che dev’essere la norma della sua condotta. Chi ha l’occhio abbastanza acuto e sereno da cogliere questo viluppo, questo intreccio, questo conflitto, qual è nella realtà, senza velo di passione e senza illusioni fantastiche, giudicherà bene; chi no, sbaglierà: né l’errore è scevro di pericoli.

Durissima sperienza di essersi lasciata ingannare al fallace miraggio di uno sconfinato ideale fecero gli uomini che guidarono la gran rivoluzione francese. Sollevatisi a poco a poco, senza avvedersene, dal terreno solido delle loro effettive condizioni storiche, d’altro non parlavano, che dell’uomo primitivo, de’ suoi dritti inalienabili, del contratto onde erasi stretta la società nascente, della rescissione di quel contratto, di un altro più valido a rifarne da capo, e ci si scaldavano, e non riflettevano che quel tale uomo così nudo, così astratto, così primitivo, quel contraente ingenuo, quel rescissore puntiglioso o esisteva soltanto nella loro immaginazione, o era un uomo preistorico, assai lontano dalle loro incalzanti necessità.

Vittime di simile illusione, ei, per non ricredersene, si rovesciarono la colpa gli uni sugli altri; e s’immolarono successivamente gli entusiasti attori di quel dramma sanguinoso, prima carnefici, poi vittime, con rapidissima vicenda, finché non disparvero tutti quanti, da Andrea Chenièr, a cui la ghigliottina interrompeva su le labbra l’ultimo canto fino al rigido Robespierre, che si credeva legislatore, ed era poeta anche lui.

Il solo, che dall’Inghilterra aveva portato quel tatto pratico degli affari, e che avrebbe potuto, non ostante l’inclinazione tribunizia, regolare quello scompigliato movimento, il Mirabeau, era morto per tempo, e gl’inesperti timonieri che gli successero non seppero resistere al fiotto che s’avanzava e s’avanzava, e vi rimasero irreparabilmente travolti.

Spesso piccole differenze seriamente meditate ti rivelano tutto intero un sistema. Ho riflettuto, che il 1789, appunto, nel Parlamento inglese si agitava la questione della tratta de’ negri. Guglielmo Pitt, dopo una certa riserva, si aprì per l’abolizione. Era l’epoca dei dritti inalienabili, de’ contratti sociali, della filantropia, tanto uggiosamente predicata, che il nostro Alfieri la chiamava filantropineria: ebbene! Pitt, in un discorso che durò due ore, non ricorse a questi luoghi comuni, ma difese l’abolizione coi principii dell’economia politica, pel vantaggio dell’agricoltura, pel vantaggio delle colonie inglesi, e citò l’esempio dell’Inghilterra medesima, stata prima mercato di schiavi, e poi albergo di uomini liberi; dichiarata prima incapace di civiltà, ed ora antesignana; ed infine, che cosa saremmo stati, conchiuse, se si fosse applicato a noi il ragionamento che oggi noi facciamo contro i grossolani abitanti delle coste della Guinea? Così discute un uomo di stato, quando ha avuto quella soda coltura, e quella educazione politica; che aveva avuto Guglielmo Pitt, non già con frasi generiche, espressione d’indefiniti desideri, applicabili sempre e dovunque; ma appunto per questo incapaci di un’applicazione praticamente opportuna in un dato tempo, e in un dato luogo.

Volgendo ora lo sguardo all’Italia di quel tempo anzi alla parte d’Italia meno colta, e stata più lungamente soggetta alla dominazione straniera, che cosa ritroviamo? Siamo al 1780, ed un ingegno giovanilmente baldanzoso, un cuore sinceramente aperto al più schietto amore della civiltà, Gaetano Filangieri, scrive la Scienza della legislazione. Il Willemain la chiama, con asprezza, ma forse non a torto del tutto, le mille ed una notte della Politica. Il Filangieri ha letto ed esaminato le leggi inglesi, e non gli paiono sufficienti a tutelare la libertà, e a preservare i magistrati dalla corruzione; propone correzioni e riforme a iosa, senza guardarsi attorno, senza riflettere gli ostacoli in cui si sarebbe imbattuto, senza ricordare i due secoli e mezzo di viceregno, l’ignoranza delle moltitudini: solo, col suo entusiasmo, con la sua poetica legislazione ei si tiene capace di far testa a tutto il mondo esteriore. Fu fatto ministro, ed una morte prematura lo scampò provvidamente dal disinganno.

Questo esempio funesto di mutare e rimutare senza tregua mai, che ci provenne d’oltralpe, e dal contraccolpo ch’ebbe tra noi la vertiginosa rivoluzione francese; ovvero, per essere anche più imparziali, questo morbo ereditario, pel quale non sopportiamo che arrivi a mezzo il novembre quel che si fila di ottobre, proviene in parte da indole bollente ed irrequieta, in parte ancora dal difetto di studi severi, e disciplinati.

Come rimediarvi? Dove ricorrere?

La civiltà cammina secondo la maggior produzione ideale di un popolo, e l’officina di questa produzione è l’Università: qui si maturano e di qui si propagano le idee; qui dunque bisogna cercare il rimedio ai nostri poetici entusiasmi, la misura ai nostri vaghi disegni; perché di qui esce quella classe, che tosto o tardi è chiamata a reggere i destini del nostro popolo: di qui quella opportuna preparazione che loro è necessaria. Onde il nostro Balbo ben a ragione scriveva, trent’anni fa, queste memorande parole: “Uno dei più potenti mezzi di diffondere l’educazione politica è l’alta istruzione pubblica, quella che si dà nelle Università, e che si riceve non da quel popolo minuto, i quali alcuni affettano di nomar popolo esclusivamente, ma dal popolo alto, dall’aristocrazia intellettuale tutta quanta”.

Ed il sommo storico aveva ragione di rallegrarsi vedendo in quel tempo l’Università di Torino arricchita di altre sei cattedre, tutte concernenti le scienze sociali; imperciocché dalle condizioni dell’insegnamento superiore, dalla sua estensione, dalla sua qualità si può far sicuro prognostico della bontà corrispondente degli ordinamenti politici. Le idee precise, dimostrate, diffuse non possono a meno di fruttificare; e se la loro efficacia vien sempre controbilanciata dai volghi che vi resistono, finché non ne penetri negli animi loro la persuasione per mezzo della logica ineluttabile de’ fatti; la forza media però ricavata da quella energia e da questa resistenza è sempre tanto maggiore, quanto più intensa è la produzione ideale, e più rilevante il cumulo, che se ne vien raggranellando. L’Università adunque è come il barometro che misura la pressione di quest’atmosfera ideale che preme le nostre menti, non per metafora, ma alla guisa medesima che l’atmosfera fisica preme i nostri corpi.

Le cause perturbatrici possono far oscillare questa misura; posson influirvi i vapori delle passioni, possono frammischiarvisi le correnti di avvenimenti lontani; ma il grado medio è fissato sempre dalle idee accumulate, e dalla loro progressiva vittoria su gli impedimenti circostanti.

Che se norma costante delle riforme politiche veramente salutari e durature è cotesta media intellettuale; e se di essa è principale, anzi unico fattore la ricerca scientifica, è manifesto che senza una solida istruzione è imprudente, è pericoloso tentarle. Ed anzi la istruzione sola non basta senza quel tatto sicuro che nasce o da una lunga sperienza, o da una divinazione felice, che ammonisce lo statista della sopravvenuta opportunità. Così, a mo’ d’esempio, la riforma di Roberto Peel, il 1846, fu un’applicazione de’ principii di Adamo Smith: principii ch’erano stati pubblicati il 1776, settant’anni prima per l’appunto: il che, a conti fatti, significa che i resultati delle ricerche scientifiche non si possono subito tradurre in legge dello Stato, e che bisogna aspettare il tempo ch’esse diventino opinione prevalente nel paese: bisogna che quelle voci solitarie trovino tanti echi, e tante volte si ripetano, finché il loro suono si faccia udire assai da lontano. Senza di ciò si farebbe opera vana se non dannosa, e chi ricorda le tumultuose e frettolose riforme chieste ed ottenute in Italia circa la metà di questo secolo, e la fortuna che ebbero, non metterà in dubbio questa legge fatale del progresso, che gli acquisti sicuri non si fanno, cioè, se non assai lentamente: e che i giorni de’ popoli sono gli anni degl’individui.

Ma alle opportunità pensi chi deve: a noi qui incombe il procurare, l’insistere, perché i nostri studi salgano là, dove negli altri paesi son saliti già da un pezzo; perché le scienze sociali si vantaggino, fin dove è possibile, degli aiuti delle scienze esatte; e discoprano nel corso de’ fatti umani quella costante regolarità che splende attraverso i fenomeni naturali. Certe relazioni non sospettate prima tra le azioni umane e i fatti naturali, che la statistica, ha registrato, danno già indizio di potersi penetrare più addentro nella maravigliosa corrispondenza che intercede tra l’uomo e la natura esteriore. E quanto maggior numero di rapporti costanti si discoprirà, quanto più saremo chiari delle leggi sociali, tanto sarà più sicura la previsione dell’avvenire, ch’è fondamento dell’arte di governare. A quest’alta coltura appunto debbono mirare le Università italiane oggi specialmente, che il nostro Stato si regge ad ordini liberi: senza di essa, dirò anch’io col Balbo, mutuando le sue stesse parole “è sogno, è errore; è forse colpa o delitto volersi avviare nella politica pratica, o peggio volervi avviare altrui”.

Sapere è prevedere, diceva un filosofo francese, ed in nessuna scienza le previsioni sbagliate portano più prontamente i loro amari frutti, come in queste che toccano l’attività collettiva de’ popoli. Non basta aver sott’occhio la meta prossima, ma la lontana, come per navigare non basta il timone, che governa il corso presente della nave, ma occorre la bussola che accenna la direzione finale. Forniti di mano robusta e di vista sincera ed acuta non si può fallire al porto, e la ragione, come soleva dire Montesquieu, finirà sempre con aver ragione.

La ragione che somministra le idee, e dà l’impulso alla civiltà, ed il tempo che le propaga: ecco dunque i due veri fattori del progresso. Ed il tempo pur troppo corre rapidissimo agli operosi, passa pigro e lento agl’inerti; onde sempre succede che le impazienze provengono da parte di chi pensa meno, dovechè la longanimità dell’aspettare è la prerogativa de’ popoli adulti.

Noi, benché rinati di fresco, abbiamo il dritto di contare tra questi ultimi, o signori; che se lunghi secoli ci mancò l’energia di comporci ad unico Stato, nella scienza di governare i popoli fummo una volta maestri, furon queste le parti nostre, come cantava il poeta latino: ora è tempo di mostrare, che del passato non siamo totalmente dimentichi. Mostriamolo qui, in questa altissima officina di idee, che si chiama Università, raddoppiando il lavoro del pensiero, il più nobile, il più produttivo, il veramente umano lavoro. Eredi di un gran nome, facciamo a gara tutti quanti, maestri e discepoli, se non di riguadagnare il primato antico, almeno di raggiungere quella parità, senza di cui, al cospetto dell’Europa civile, ci toccherebbe vergognarci della nostra fama.

 

F. Fiorentino

 

 

Pisa, 16 novembre 1876.

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