Palazzo della Sapienza, Aula magna nuova, 15 novembre 1944.
Relazione del Rettore per l’anno accademico 1944-1945
Signor Generale, signor Governatore di Pisa e Ufficiali alleati, Eccellenze, signor Sindaco della città di Pisa, colleghi, studenti e signori tutti.
Quando il 15 settembre ultimo scorso assistetti alla cerimonia dell’anno accademico dell’Università fiorentina, cerimonia riuscita felicemente patetica, io confesso di aver sentito dentro di me una dolorosa invidia. Pensai per contrasto alle sorti di Pisa, incomparabilmente più gravi di quelle di Firenze; i miei amici e colleghi fiorentini badavano ad elencarmi le rovine dei loro punti e di qualche palazzo dei lungarni; avevo vissuto pur io con loro le famose giornate dell’assedio, e patito con loro le sofferenze e i pericoli per le minacce e le sevizie dei tedeschi, e i colpi proditori dei franchi tiratori, organizzati purtroppo da un mostriciattolo nativo di Firenze stessa e ancora oggi ministro-segretario dell’agonizzante partito fascista-repubblicano. Nulla mi giungeva nuovo di quello che aveva sofferto Firenze; ma il 12 e il 13 settembre avevo visitato la città di Pisa e avevo il cuore allagato da una profonda e cupa angoscia e come gli occhi oscurati da uno spettacolo di generale rovina.
Pisa, la nostra bella Pisa, la città dalle vie dorate e gli orti come la vide Giacomo Leopardi che ne ritrascrisse le postille nella fisionomia della sua Recanati; la città più luminosa della toscana tutta, la città dei nostri sogni giovanili, quella a cui accorrono gli studenti di tutta l’Italia per la sua antica e celebre Università e per quella gloriosa Scuola Normale Superiore, vivaio e palestra dei nostri migliori ingegni, nel campo delle lettere e delle matematiche, dai tempi granducali a oggi; questa Pisa che tutti abbiamo amato come l’immagine della donna più cara al nostro cuore, giaceva inerte, spezzata, smozzicata, sgretolata, misteriosamente paurosa di mine e di ordigni di guerra, fatta improvvisamente buia nelle sue spalancate macerie. Rari gli abitanti ancora, e tutti frettolosi e dimentichi di altrui, con il volto sbattuto e stranito per i sofferti digiuni e le paventate e subite atrocità germaniche. Un distintissimo ufficiale inglese, di buona cultura umanistica e però sinceramente amico della nostra povera Italia, di questo paese assai più infelice che colpevole, avendomi accolto nella sua macchina proprio per appagare il mio febbrile e irrequieto desiderio di rivedere Pisa, era affranto anche lui per tale spettacolo. Mi disse, al primo giro di sguardo, che non aveva visto città così rovinate, se non Messina e Cassino. Uno della comitiva commentò, secondo una frase proverbiale per noi italiani, “ci rimangono soltanto gli occhi per piangere.” Ma i nostri occhi non piangevano nemmeno, perché il pianto più disperato è ancora una forma di fede, è un sollievo, un preannunzio, una riapertura dell’animo alla vita.
Così che, in quell’occasione inaugurale dell’anno accademico fiorentino, mentre Firenze si avviava rapidissimamente a riprendere il ritmo della sua vita normale di città giustamente privilegiata, io, che pure non ho l’abitudine al linguaggio umile e remissivo, tacevo davanti alle querele che questi o quegli faceva sulle sue piccole avventure, e chiudevo la mia pena sempre più dentro, come rifiutandomi di dare particolari sull’immenso e incomparabile lutto di Pisa, per quello stesso pudore che ci conduce, in occasione di sciagure familiari, a velare e ad alleggerire nella parole la nostra personale disgrazia.
Fu proprio in quel giorno e in quell’occasione che io ebbi la ventura di essere presentato al signor Generale Hume, e Voi, signor Generale, se ricordate, mi diceste: “Faremo presto una cerimonia analoga all’Università di Pisa” e io timidamente e rispettosamente risposi: “Ma le condizioni di Pisa sono assai diverse di quelle di Firenze.” “Lo so, ma Pisa a poco a poco risorgerà, e anche a Napoli inaugurammo l’anno accademico, che la città giaceva ancora sbalordita sotto il colpo della guerra.” Voi diceste queste parole con semplicità e con ferma serenità, ed io rimasi disarmato e avvinto dalla vostra fede; ebbene vi debbo dire che fu quello l’inizio della mia convalescenza. […]
Sono passati quasi tre mesi da quel giorno del nostro breve colloquio, e con piena coscienza e non per le solite convenzionali falsità che sono state di moda nei venti anni del fariseismo fascista, tutti possiamo affermare che Pisa ha una qualche ripresa della antica vita, grazie agli aiuti del Comando alleato, all’opera delle autorità cittadine e provinciali, alle iniziative di privati cittadini e di studenti. Ma c’è stata il 2 e il 3 novembre una paurosa inondazione delle acque dell’Arno, sicché alcune strade di Pisa si tramutarono improvvisamente in canali perfino navigabili da leggeri barchetti. Ci venne spontanea, per questo nuovo flagello, sulle labbra una reminiscenza biblica del poeta di Sionne deserta: “Cui comparabo te, vel cui assimilabo te, et consolabor te, filia Jerusalem…? Magna est enim velut mare contritio tua; quis medebitur tui?”. Ci parve per un momento che la lontana maledizione di Dante, quando invocava che la Capraia e la Gorgonia facessero siepe alla foce dell’Arno “si anneghi in te ogni persona” avessero avuto come una simbolica, umbratile effettuazione. E non si trattava di semplice immaginazione letteraria: perché nelle inaudite sofferenze a cui la guerra ha sottoposto un po’ tutta l’Italia liberata e in particolar modo questa città di Pisa, in certi momenti di esasperata sensibilità, ci è parso davvero di avvertire come un misterioso richiamo della divinità, un flagello e una forma di penitenza delle nostre colpe: nostre o d’altrui, perché a voi è capitato lo stesso fato che pesa su alcune famiglie, dove il disordine morale e i delitti di uno o due si abbattono come catastrofe e lutto di tutta la casa. La frase che tante volte abbiamo letto nei cronisti medievali, “si seguirono in quegli anni guerre, saccheggi, pestilenze, inondazioni” e che ci era parsa sempre una formula retorica, ora ci si traduceva in una avvinghiante realtà: in questi nostri tempi ritornati improvvisamente tempi medievali, in cui i bisogni della vita più elementare ci assillano come all’origine della civiltà.
Ma, come avviene sempre nella saturazione delle sciagure, che si acquista una ferma impassibilità stoica, fatti superiori alle nostre perdite e alle nostre disgrazie e alle nostre privazioni, siamo ritornati tutti al nostro lavoro di ricostruzione, senza aver tempo di lamentarci e anzi fustigando noi stessi quando queste lamentazioni affioravano nelle conversazioni private. Il sole è tornato a risplendere sui lungarni pisani, e ci è tornata la fiducia per una massima che ci soccorre nei momenti più duri: quando si giunge all’estremo fondo del dolore e della disperazione, è segno che da quel momento già si ricomincia a risalire. Più in là non è possibile andare, e allora il miglior modo di guarire, è quello di mettersi a camminare, di fare qualche cosa, di dimenticare il passato, d’intendere con tutte le nostre forze all’avvenire.
E ora giunge questa riapertura dell’anno accademico, che non si vuol fare certo una lustra esteriore, ma con la fiducia che essa segni una più decisa ripresa di tutta la vita cittadina. Quando i vari Istituti universitari, che ora per la necessità della guerra sono occupati dalle Armate Alleate, saranno tutti derequisiti, come costantemente mi si promette dal Generale Hume e da altri alti Ufficiali, allora la rinascita di Pisa avrà un ritmo più celere e più sicuro. Poiché questa è la singolarità di Pisa: il cuore di Pisa è la sua Università. Pisa risorge, abbiamo sempre ripetuto, se risorge la sua Università. E nella risurrezione di Pisa s’incardina la resurrezione non di una città, ma di tutta la Toscana litoranea e alpigiana, dalla Spezia a Livorno e a Grosseto, dalla Garfagnana alla popolosa e laboriosa provincia di Lucca.
Noi non ci accontentiamo delle glorie antiche di questo centro artistico-culturale che è stata Pisa nel suo passato; le mura e le colonne e gli archi possono essere anche un motivo di senile retorica scolastica, e chiamano il sorriso dell’ironia e sulle nostre labbra di gente troppo svagata dalla letteratura. Noi amiamo Pisa e desideriamo il suo risorgimento, per una funzione immanente inerente a questa città, anche nei tempi moderni.[…]
Pisa, si è detto in ogni tempo, è una città morta, ma una città morta di quelle che insegnano perennemente ai vivi; è una città per la quale bisogna passare.
L’esempio di illustri insegnanti che hanno lasciato o rinunciato alle Università di Roma, di Firenze, o di Milano, o di Bologna, per convenire a Pisa, è la prova più eloquente di questa sua perpetua funzione storica. Non è un semplice omaggio al suo blasone di vecchia nobiltà universitaria, un omaggio a Galileo Galilei o a Antonio Pacinotti o a tanti altri insigni che vi hanno insegnato e fatto valere le loro scoperte scientifiche e letterarie: noi non siamo così sentimentali da lasciarci legare semplicemente dalle memorie di un defunto passato. Piuttosto, c’è stato sempre in tutti noi un avvertimento segreto: che per la vita scientifica valesse meglio questa città di silenzio e di solitudine, che non le città troppo distratte ed assordate dai mille commerci della vita moderna. Nei momenti di stanchezza, e di dispetto polemico, possiamo anche noi rivoltarci e correre col pensiero verso altre mete e altri centri, ma poi, gelosi delle nostre migliori vocazioni mentali, sentiamo che in questa città assorta e romita si maturano forse meglio, e più castamente, le nostre immaginazioni letterarie e le nostre meditazioni scientifiche. E se questra nostra può essere la malinconica fisima di uomini maturi o già declinanti, ecco poi che riscontriamo nei giovani e nei giovanissimi analoga consonanza di sentire. Possiamo gridare contro il borgo selvaggio, ma il borgo selvaggio è pur quello dove il poeta si raccoglieva per esprimere i suoi canti più belli. Quante confessioni abbiamo ascoltato durante il ventennio fascista da giovani sospirosi verso la pace e la libertà di Pisa, come una città-rifugio, porto di salvezza dove essi si sarebbero potuti riparare e difendere dal morbo della ciarlataneria e dall’arrivismo, in una severa e refrattaria disciplina di studi!
Pisa, subito dopo Roma, è la città che più conta una scolaresca reclutata per tutta la nazione; piemontesi, lombardi, e triestini, abruzzesi, pugliesi e siciliani si sono affiatati ancora nei nostri tempi e sotto i nostri occhi con la scolaresca proveniente dalle province viciniori: a Roma, almeno nel tempo fascista, c’era baraonda e confusione, mentre a Pisa c’era raccoglimento e ascesi scientifica, nonostante l’imperversare delle stupidità di quattro gerarcucoli, che noi ignoravamo e che non abbiamo avuto mai il desiderio di conoscere. E quando qualche rettore o turpemente servile o fatuo o letterariamente rozzo e ingenuo scandiva i loro nomi in queste aule con ipocrita e adulatoria riverenza, un ghigno di intesa lampeggiava nello sguardo di tutti, colleghi e studenti. Poiché questo è pure il privilegio di un popolo carico di storia, come l’italiano; possiamo in certi momenti, per nefaste necessità e per la dura povertà, cucire una qualche falsa piega nella nostra coscienza (ed è certo questo una deplorevole ricucitura), ma difficilmente cediamo sul punto della nostra intelligenza di critici e di morditori. Diceva il Foscolo che de’ Numi è dono serbar nelle miserie altero nome; noi che non siamo Numi, ma che da tremila anni abbiamo bazzicato con essi sulle pendici e per le caverne del Parnaso, serbiamo almeno questa alterezza della mente, che sa irridere allo stupido oppressore e anche al benigno ma non sempre comprensivo amico, riuscendo a riscattare in tale misteriosa e allusiva operazione la nostra dignità di uomini e di nazione.
L’Università di Pisa è stata, è noto, per tutto l’Ottocento e fino al 1940 convegno di una studentesca internazionale. L’esempio del bisnonno del generale Mascarenhas, comandante delle forze brasiliane in questa zona, il quale veniva a compiere i suoi studi e si laureava con lode nella nostra Università nel 1822, non è un caso fortuito e isolato.
[…] Se sono celebri nel mondo il Duomo, il Battistero e la caratteristica torre e il camposanto oggi, ahimè, duramente provato dalla furia della guerra, ugualmente celebre è questa vita collegiale del nostro Ateneo, che si richiama a tipici collegi universitari dell’Inghilterra e dell’America. Noi possiamo avere a tratti intolleranza per questa vita malinconica di limitazione e di rinunzie; ma poi, nella serenità della riflessione, ci convinciamo che le nostre rinunzie a una vita più agiata e più rumorosa sono spiritualmente compensate da conquiste mentali e spirituali che altrove sarebbero più appariscenti ma anche meno solide e durature.
Ciò dica del lutto del nostro cuore per gli edifici universitari, o danneggiati o occupati per necessità militari, dalla Scuola Medica alla Scuola Normale Superiore, al Collegio economico-giuridico Giuseppe Mazzini (come è stato ribattezzato, per lavacro purificatore, l’istituto che portava un assai tristo nome) alla Scuola d’ingegneria e agli istituti di Chimica, di Fisiologia e di Igiene e alla Scuola d’Agraria. Ciò dica della vivacità con cui tutti ci siamo trovati a difendere l’integrità del nostro Ateneo: le atroci ferite inferteci dalla guerra sarebbero nulla a confronto di questa più atroce ferita che la nostra Università fosse o sia privata, anche se temporaneamente, dei suoi celebri e laboriosi istituti. Difatti si è sentito parlare di possibili trasferimenti, e Siena, Firenze, Lucca ci hanno offerto asilo fraterno. Si è invocato l’esempio della Messina del 1908 e della sua Università, trasferita dopo il terremoto temporaneamente a Palermo; ma allora si trattava di una città sola colpita dal disastro e sulle sue sorti vegliava la pietà di tutto il mondo. Ora le città sconvolte e contorte dalla guerra sono parecchie e ciascuna pensa alle sue ferite e alle sue privazioni e si disinteressa necessariamente di quello che è avvenuto a cinquanta chilometri di distanza.
[…] A una visione superiore, questo rifugiarsi di ciascuno in se stesso non appare semplice gretto egoismo: nell’affrettare la rimarginazione delle nostre piaghe, noi acceleriamo anche la guarigione del nostro vicino. Io riparo la mia casa, anche perché ne viene un vantaggio agli appartamenti degli altri casigliani. Un po’ tutti gli italiani viviamo così: come i ricoverati di un grande ospedale, dove i malati gravi si alternano ai malati meno gravi e ai malati leggeri. Il malato leggero talora si ripara sotto le sue coperte per non sentire il lagno straziato dell’infermo vicino, e mentalmente si rallegra di trovarsi in condizioni migliori. Non gridiamo all’egoismo, perché la vita pur riprende per questo ragionevole egoismo dei minori sofferenti; il loro contegno è stimolo a noi più sfortunati, perché tutto si faccia con le nostre forze, senza aspettare aiuti dagli altri. I compianti, le querele, le condoglianze non servono a nulla: si vive soli, come si muore soli.
Anche per gli aiuti che ci possono dare gli Alleati noi non possiamo e non vogliamo illuderci; nessuno di noi pensa che gli altri popoli possano risolvere il nostro problema. Noi chiediamo soltanto gli arnesi per lavorare, le nostre scuole per studiare, le nostre case per raccoglierci nelle ore del riposo e della intimità familiare. Noi non pensiamo di sostituire al “duce” lungimirante che provvedeva a tutto, il comando alleato che provvede egualmente a tutto. Sarebbe soltanto offensivo sospettarlo: saremmo dei peccatori recidivi e faremmo torto agli Alleati a crederli onnipotenti e onniprovvidenti. Noi chiediamo soltanto la libertà di lavorare, e poiché la guerra ci ha travolto e distrutto gli strumenti del mestiere, chiediamo almeno un aiuto materiale e un prestito di codesti strumenti. Nemici come siamo delle frasi fatte, e di frasi fatte in un ventennio di fascismo ne abbiamo fatto crapula e bassa gozzoviglia, vorremmo dire che noi non crediamo nemmeno, e non paia questo un paradosso, all’altro mito degli Alleati liberatori, perché la vera liberazione può venire soltanto dal nostro personale sforzo. Gli Alleati hanno un solo dovere, quello di vincere la guerra e di liberare se stessi: nella vittoria e nella liberazione di se stessi, implicitamente essi operano e aiutano la nostra liberazione. E però i nostri voti e i nostri sforzi, la nostra schietta collaborazione morale, li asseconda e li accompagna fervidissima. E noi, se mai, abbiamo un rammarico che le nostre forze militari siano ancora ammesse solo con molte limitazioni e con strane etichette a combattere per la vittoria comune.
Questi, in parole povere, i sentimenti degli italiani in questa tragica stagione. Potremmo essere giudicati male da voi Alleati, perché i lutti familiari, le perdite degli averi, e lo stesso scarso nutrimento ci deprimono e ci avviliscono; ma un popolo di vecchia nobiltà non può perdere da un anno all’altro del tutto la sua antica fierezza e capacità creativa. Sarebbe lo stesso che voi giudicaste della grazia luminosa di questa Pisa, tanto decantata, dalla melma e dalle macerie che ora la deturpano. Le nostre case sono distrutte, ma la nostra storia è sempre in piedi, ed essa è eloquentissima di alta testimonianza. Dateci tempo e ci riprenderemo; e riconoscerete che almeno dal 1915, senza contare tutta l’amicizia del periodo risorgimentale, siamo stati sempre idealmente vostri alleati.
La nostra unità nazionale ha attraversato fasi diverse e incerte: i primi cinquant’anni della nostra vita unitaria furono fitti di polemiche, di satire reciproche e di malintesi. Eravamo popoli ricchi di una tradizione propria in ciascuna regione, e in ciascuna provincia: ciò che costituiva la nostra latente ricchezza e non lo sapevamo. Nell’accostamento di queste tradizioni diverse erano inevitabili gli urti e gli scontri; ma noi benediciamo quelle polemiche, quelle satire e quegli urti, che si esplicavano in una atmosfera di libertà. La libertà ha sempre questa virtù: di guarire, come l’aria fresca delle colline, i malanni che per essa stessa si possono generare. È soltanto l’aria chiusa e oppressiva che ci divide, e intossica i nostri nervi e allenta il nostro vigore. Di quella prima fase della nostra unità nazionale, noi cogliemmo i frutti e demmo una palese ed eloquente testimonianza nell’altra guerra europea, nella quale combattemmo strenuamente accanto agli alleati di oggi: era una guerra che rispondeva ai nostri ideali nazionali, e soffrimmo perdite sanguinose e privazioni, senza troppi lagni e defezioni. Vittorio Veneto è stata il collaudo del nostro vigore combattivo e unitario, e una pace feconda di legittimi ingrandimenti fu il premio di quel nostro sforzo.
Malauguratamente, per una specie di collasso morale avveratosi in tutta l’Europa, come fatale conseguenza dello sforzo disumano compiuto, cominciarono a serpeggiare i segni di una malattia, che fu la febbre dell’autoritarismo. Il fascismo, bisogna dire anche questa, non fu e non è una malattia italiana, ma una malattia europea; noi ne abbiamo patito più tragicamente le conseguenze, perché il nostro organismo nazionale era più debole di quello degli altri popoli storicamente e politicamente più agguerriti e più adulti del nostro. Noi fummo colti dal male nella crisi della nostra adolescenza; ecco perché ho detto più innanzi che il popolo italiano in queste avventure dell’ultimo ventennio è stato un popolo più infelice che colpevole. Ci si presentò un medico ciarlatano, il quale invece di curare con pazienza e cauta lentezza la malattia e il nostro delicato e giovanile organismo, ci sferzò con parole esaltanti: noi, a sentir lui, non che malati, crepavamo di salute e di vigore sanguigno. Molti ebbero il torto di credere a questo medico ciarlatano; una minoranza, ma che era l’aristocrazia spirituale d’Italia, sogghignò amaramente e a poco a poco fu costretta a vivere appartata dalla vita nazionale. Ci dissero che eravamo degli intossicati e dei malinconici, e il nostro capo spirituale, Benedetto Croce, fu assiduamente ingiuriato come un vile sedentario che dal chiuso della sua biblioteca non poteva intendere le nuove vie della storia. Purtroppo gli uomini di biblioteca hanno avuto ragione sul fatuo e gracchiante o belante ottimismo degli uomini sulla piazza, e la punizione della storia è giunta più tremenda e più grave di quella stessa che gli intossicati e i malinconici non avevano potuto o voluto, per pietas fraterna e filiale, prevedere.
Pure non disarmammo mai: i giovani sono testimoni della nostra opera di insegnanti, intesa a portare chiarezza dove c’era confusione e torbidezza passionale. Non si parlava di politica dalla cattedra, per rispetto allo stesso ministero scientifico, che non patisce ibridismi di propaganda; ma la chiarezza e la severità nel campo scientifico si estendeva necessariamente anche sul campo politico. Poiché questa è la virtù del pensiero: che esso soffia vita e salute in tutte le parti di un organismo spirituale. Le Università italiane, se pure contano in questo ventennio spiriti servili, fatui ed ottusi che, per un piatto di lenticchie, per un qualche onore accademico, rinunziarono alla loro dignità e indipendenza, furono la roccaforte dell’antifascismo; e l’Università di Pisa, per la sua particolare solitudine e per la sua stessa ascesi scientifica, fu forse all’avanguardia di questa reazione antifascista: sotto gli occhi stessi dei gerarconi, tutti compiaciuti delle loro cariche e dei loro pendagli e soddisfatti delle loro grasse prebende, fermentava lo spirito di rivolta dei maestri e degli scolari. La Scuola Normale Superiore, che io ora ho l’onore di dirigere, era già nelle nostre mani e nelle mani degli altri colleghi, nel momento stesso in cui essa si riparava dietro nomi fascisticamente ortodossi. I gerarchi locali tentavano la scalata ai nostri istituti, ma si arrestavano sempre, per una forza misteriosa, sulle soglie del tempio. Carceri, persecuzioni, minacce di confino, non distolsero maestri e scolari dal loro segreto ufficio. Oggi gli studenti di Pisa sono dispersi un po’ in tutta Italia e, purtroppo, numerosi ne gemono nei campi di concentramento, ma dappertutto portando l’alito di vita morale coltivata in questo malinconico ma severo romitorio pisano. […]
E ora, giovani, permettete che mi rivolga a Voi. La vostra assenza durante questo tragico periodo di dispersione, mi ha fatto soffrire sottilmente e assiduamente, come mi mancasse il principale sostegno e la stessa ragion d’essere della mia vita. Voi siete sempre stati i miei più fedeli compagni durante il decennio del mio insegnamento pisano; circondato da Voi, io e altri colleghi abbiamo potuto resistere alle pressioni e alle minacce che ci giungevano dall’alto, da gerarchi, gerarconi e gerarcucoli. La scolaresca universitaria pisana ha rappresentato in ogni tempo l’opinione pubblica di quella città e un’opinione pubblica assai disciplinata e consapevole. Nella vostra assenza, le rovine di questa città mi parevano immense e irreparabili: via via che Voi giungevate, si rianimava il mio vigore di combattimento e di ricostruzione. Siete ancora una sparuta minoranza, ma già simbolo di quei cinquemila studenti che un giorno o l’altro rientreranno a Pisa. Vorrei la vostra presenza, e più compatta, perché nei vostri visi i soldati alleati che vivono a Pisa leggessero a chiare e vivaci note quello che è stato il nostro sentimento costante. Noi, idealmente, non siamo mai stati alleati dei tedeschi e dei loro più odiosi sicari che furono i fascisti. La guerra dichiarata alla Francia, all’Inghilterra, e poi, con ridicola iattanza, alla stessa grande America, non è stata mai la guerra del nostro cuore, non è stata mai la guerra del popolo italiano, ma soltanto la guerra di un partito capeggiato da uno sciagurato megalomane, il quale ha voluto scatenarla, anche con impari mezzi, contro tutte le forze della civiltà cristiana, democratica e liberale del mondo.
La guerra dell’Italia era la guerra di una facinorosa oligarchia, insediatasi al potere con le mitragliatrici, con le prigioni, con i confini, con i tribunali speciali; era una guerra di un partito, e non la guerra di una nazione. E questo noi abbiamo sempre dichiarato, e non lo dichiariamo soltanto adesso, post factum, a catastrofe avvenuta. Lo abbiamo insinuato anche in riviste fasciste, testimoniando in un linguaggio segreto che solo gli ottusi ed ignoranti fascisti non intendevano, che i giovani non sentivano questa guerra dichiarata alla Francia, all’Inghilterra, all’America, al Brasile, alla Russia, alla Grecia, a cui tanti legami ideali ci stringevano. […]
Quando nel giugno del ’40, la radio fascista gracchiò la terribile notizia che Parigi era caduta, qui negli ambulacri di questa Università incontrammo un collega, oggi per fortuna lontano, che ci guardò benignamente ma con un certo sorriso sulle labbra. Allora feci forza al mio grande corpo per non scattare, e, riparandomi sotto la citazione di un poeta (le citazioni letterarie servono talvolta a dare una maggiore lontananza alle nostre passioni) con voce insolitamente pacata gli dissi, parafrasando noti versi: “Roma antica riuna, tu sì placido sei?”. La pacatezza insolita della voce e forse il fremente pallore del viso diedero una particolare espressione alle mie parole, e il fatuo collega si dilungò abbassando il capo. Già: precisamente io nella caduta di Parigi vedevo il tramonto di Roma, e tutta quell’estate tutti quelli che avevamo un minimo di intelligenza trepidammo per le sorti dell’Inghilterra. Se l’Inghilterra resisteva, il mondo era salvo; e l’Inghilterra miracolosamente e sublimamente resistette. In quella resistenza l’Inghilterra non ha salvato soltanto se stessa, ma ha salvato l’umanità. Dunque ancora una volta Roma era salva.
Poi è venuta la storia dell’intervento dell’America e della Russia, che tutti sapete. Oggi molti italiani guardano a Stalin, e moltissimi italiani guardano al presidente Roosevelt; nell’uno e nell’altro caso c’è sempre desiderio vivo dell’avvento di una democrazia reale nel nostro paese. La rielezione di Roosevelt è stata acclamata in Italia, come l’annunzio sicuro della vittoria finale e la conferma della giustizia nella nostra guerra cristiano-democratico-liberale. Dalla grande e giovane America, oggi unita al continente europeo dalla rapidità dei mezzi aerei e navali, noi aspettiamo un afflusso di energie nuove in questa Europa stanca, dissanguata, ma non doma, e sempre ricca di quegli ideali e di quell’esperienza storica che fanno la forza e la superiorità fatale di un continente.
Un tardo pomeriggio di questo settembre - mi sia consentito ancora un ricordo personale - io facevo il viaggio in una camionetta aperta per la via che da Fucecchio conduce a Vicopisano. La macchina era condotta da un robusto e sicuro autista americano, ciò che confortava i miei sensibilissimi nervi. Ma io nuovo a questi viaggi di fortuna non ero stato previdente per ripararmi dall’aria mossa di un mezzo così veloce, e calando le ombre del crepuscolo dai violacei monti pisani avvertivo qualche brivido di freddo. Pure tentavo di dissimulare il mio disagio; ma il sagace autista non si ingannò sulla vera situazione. Egli fermò di botto la macchina, e senza dir parola scese a frugare in un suo ripostiglio. Ne venne fuori con una grossa coperta, e silenziosamente - senza che io ancora mi rendessi conto delle sue intenzioni - me l’avvolse attorno al corpo. Io rimasi intenerito da quel suo gesto di discreta pietà filiale, e allora pensai, che, nonostante i fraintendimenti che si frappongono fra noi europei e gli americani, eravamo fatti per intenderci, proprio per questa comune gentilezza umana che è il crisma cristiano dei nostri popoli.
Quei versi che ho parafrasato di sopra, “Roma antica ruina, tu si placida sei?”, come è noto, sono versi di Giacomo Leopardi, nel canto del Bruto minore: è un poeta che ho citato due volte in questo discorso, e che citerò ancora una terza volta. Le sue pagine, insieme con quelle di Alessandro Manzoni, sono state il mio conforto in questi durissimi anni e le ho amorosamente postillate. Il suo tragico ma combattivo pessimismo, non che togliermi vigore, mi incoraggiava alla fede e alla speranza, perché questo è il segreto della sua poesia: maledire alla vita e infondere sempre più forte l’amore della vita; disperare della patria e collaborare al suo risorgimento; diffidare di tutte le illusioni, e dare perenne incremento a coteste illusioni, feconde di attività e di lotta. Orbene di Giacomo Leopardi, io citerò una pagina bellissima di una sua lettera, in cui parla di questa dolce Pisa. Egli che scrisse parole aspre di Recanati, di Roma, di Bologna, di Milano, e perfino della stessa Napoli, perché dappertutto portava il tormento dei suoi nervi di grande ammalato, disse invece parole dolcissime di Pisa. Scriveva alla sorella Paolina, il 12 novembre 1827: “Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così sarà una beatitudine. Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gittare il ferraiuolo, e alleggerirmi di panni. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze: questo Lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano, né a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’inverno con grande piacere, perché v’è quasi sempre un’aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue; vi brilla un sole bellissimo fra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Del resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadinoo e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito; che ho una camera a ponente che guarda sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che si arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi a Firenze”.
Questa la visione della città ottocentesca del nostro Leopardi; immaginii simili potremmo trovare negli scritti di Vittorio Alfieri e di Carlo Goldoni, di Ugo Foscolo e di due poeti inglesi, Percy Bysshe [sic] Shelley e di Lord Byron, che vi soggiornarono e vi intrecciarono i loro idilli d’amore, e ancora negli scritti di Giuseppe Giusti, di Alessandro Manzoni, di Giovanni Pascoli, di Gabriele D’Annunzio. Questa è una città che è stata in ogni tempo amata da poeti, da pensatori, da scienziati. Noi facciamo però in loro nome questo voto: che essa possa risorgere, e che Iddio ci conceda di rivederla ancora una volta nelle immagini luminose della sua grazia e della sua bellezza. Con questo pio augurio di tutti i nostri cuori, oggi, 25 novembre 1944, a segno di questa iniziale rinascita, ho l’onore di dichiarare aperto il nuovo anno accademico.
Pisa, 15 novembre 1944
Luigi Russo (rettore pro-tempore dell’Università di Pisa)
Da: Annuario dell’Università degli studi di Pisa per gli anni accademici 1941-42, 1942-43, 1943-44, 1944-45 e 1945-46.