1946 - Inaugurazione a.a. 1946-1947

Stampa questa pagina

Palazzo della Sapienza.

Inaugurazione a.a. 1946-1947 - non_disp

Relazione del rettore prof. Augusto Mancini, anno accademico 1946-1947

 

Autorità, Colleghi, Studenti, Cittadini, Cittadini tutti

Nell’anno scolastico ormai decorso non si ebbe la cerimonia inaugurale indetta per il 15 novembre, ma, qualche mese dopo, la visita del Ministro Molè mi porse gradita occasione per dire in quest’aula quanto avrei detto, rendendo conto della mia opera e dei miei propositi, nella rituale cerimonia. Dissi allora quanto grave e complesso fosse il compito che un rettore, sia pure col provvido concorso dei colleghi del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione, dovesse assumersi, e come fossero di assoluta urgenza comprensive provvidenze da parte del Governo: non del solo Ministro dell’Istruzione, che era presente, ma di tutto il Governo, poiché il problema universitario, come tutti i problemi della Pubblica Istruzione, supera la competenza tecnica di un dicastero per assumere importanza nazionale.

Il concorso dei colleghi non mi è mancato, e tanto meno quello delle Autorità cittadine e dei Prefetti delle province, che pubblicamente ringrazio, ma le provvidenze da parte del Governo non sono ancora adeguate alle condizioni in cui si svolge la vita della Università. Deve riconoscersi che qualche aiuto anche quest’anno ci è stato dato con straordinari contributi per il risanamento del bilancio, ma i bilanci universitari sono organicamente deficitari, e poiché si debbono formare non in relazione ai mezzi di cui si disponga ma al fine che le Università debbono raggiungere, non debbono essere sanati, come si dice, con saltuarie iniezioni, ma con cure radicali, tenendo ben presente come nelle attuali condizioni della economia non sia possibile parlare di quella autonomia che la legge Gentile ancora vigente poneva come fondamento e mèta della vita universitaria. Non diversa è la condizione degli enti locali, anche se si parli, e forse si parla troppo, di autonomie, che meritano in ogni campo, comprese le autonomie regionali, la più seria e cauta riflessione.

Ad ogni modo, nonostante la scarsezza dei mezzi, qualche cosa è stato fatto: poco, se si pensi a quello che resta da fare, non poco, se si pensi al risultato ottenuto. Da una relazione presentatami in questi giorni dal direttore dell’Ufficio tecnico dell’Università, l’ing. Aldo Fascetti, che pubblicamente ringrazio, risulta che si è provveduto al riassetto edilizio di non pochi istituti universitari, altri lavori sono in corso, per altri, come per l’Agraria, i Musei, e la Fisica, d’intesa con le Autorità cittadine, si stanno facendo sforzi per il necessario finanziamento.

Ma restano problemi edilizi non solo di riparazione, sibbene di rinnovamento indispensabile e non dobbiamo dimenticarli: problemi che si trascinano da anni e che la crisi del dopo guerra rende ogni giorno più assillanti. Vi sono istituti della Facoltà medica, quali, in primo luogo, le Patologie, Medica e Chirurgica, che non hanno una sede né capace, né decorosa, e non diversa è la condizione per l’intiera Facoltà di Veterinaria, e sopratutto, per quella di Farmacia. La soluzione che direi ovvia, già caldeggiata dallo stesso ispettorato del Genio Civile, si avrebbe se il Ministro della Guerra, dato il nuovo assetto dell’Esercito, e la possibilità di altri locali, rinunciasse alle ampie aree della Caserma che fu del glorioso 22° Reggimento Fanteria; e in questo senso l’Università ha preso ad ogni buon fine formale iscrizione di credito. Anche la Facoltà di Agraria non ha mancato di produrre i suoi titoli, che sono apparsi degni di considerazione, per partecipare opportunamente alla eredità dei beni dati in uso alla Corona, e bene ha fatto, ma ogni decisione è rinviata finché non si determini quali condizioni lo stato debba fare al Presidente della Repubblica e alla sua casa.

Deficienza di locali lamenta da anni anche la Sapienza, e più la biblioteca Universitaria: l’una per nuove aule d’insegnamento e per sale destinate alle riunioni delle Facoltà, nonché per una rispettosa accoglienza di Società culturali che ci chiedono ospitalità, l’altro per l’aumento continuo delle pubblicazioni che a vario titolo accoglie, ciò che ha reso necessario per l’Università cederle provvisoriamente locali entro e fuori della Sapienza, compresa la palazzina «Pacinotti», che potrebbero, o debbono per precisi impegni, essere utilizzati altrimenti.

A tali problemi di improrogabile urgenza si è presentata improvvisamente una soluzione se non definitiva, di lungo respiro, con l’acquisto del palazzo «Alla Giornata», che il proprietario Conte Rasponi è stato lieto di veder destinato a sede del Rettorato e degli uffici universitari, e di cui il Municipio di Pisa, compreso, come sempre, della necessità di promuovere gli interessi dell’Università, con atto di liberalità di cui dobbiamo essergli grati, ha rinunciato al progettato acquisto. Non dubitiamo che anche la Cassa di Risparmio, che ha tante benemerenze per l’Università, la quale - è opportuno rilevarlo - è ente autonomo per legge, e degna del trattamento che sarebbe stato fatto dalla Cassa al nostro Comune, renda di lieve aggravio le operazioni di credito che eventualmente le siano da noi richieste, se mai sia necessario ricorrervi. Il palazzo «Alla Giornata», duramente colpito in azioni belliche, sarà restaurato a spese e a cura del Ministero dei Lavori pubblici e, per la sua importanza artistica, dalla Sovraintendenza dei Monumenti: per quanto riguarda il Ministero dei Lavori pubblici difficoltà di carattere amministrativo sono state felicemente superate, quanto al Ministero dell’Istruzione non mancherà la benevolenza della Direzione Generale delle Belle Arti, a cui presiede Ranuccio Bianchi Bandinelli, già alunno e maestro indimenticabile di questa Università.

Non dubitiamo che i lavori di consolidamento cominceranno presto, come la stagione esige imperiosamente, e ce ne affida la comprensione che per i problemi universitari hanno sempre dimostrato così l’Ispettorato come la Direzione del Genio Civile, e lo stesso diciamo della Sopraintendenza dei Monumenti: tale sollecitudine accrescerà per tutti la nostra gratitudine.

La Biblioteca, quando saranno compiuti i lavori del palazzo «Alla Giornata», potrà occupare tutta l’ala sinistra della Sapienza lasciando libere le stanze che ne tiene impegnate a piano terreno. La necessità di nuove aule si è fatta più sensibile per la gradita ospitalità da noi concessa, così come ci è stata data per la Sezione di Ingegneria in Firenze, alle Sezioni fiorentine di Magistero e di Economia e Commercio, nonché alla Sezione di Lingue dell’Istituto di Venezia. Ma abbiamo fondata ragione di credere, per le non dubbie dichiarazioni di S.E. il Ministro, che Pisa avrà una sua Facoltà di Lingue Moderne quale da me, non senza il consiglio di esperti, è stata da tempo tracciata e proposta, per suo invito, di cui mi onoro, a S.E. il Ministro.

Tengo formalmente a dichiarare che le inconsulte agitazioni di questi giorni per affrettare ciò che era stato già discusso con fermezza in sede opportuna e che ha avuto sulla base di tali discussioni l’esito desiderato dagli studenti e dalla cittadinanza, o per imporre a parole provvedimenti che richiedono, per obbligo di legge e per delicatezza di problemi, maturo esame, ma solo non giovano ma danneggiano il buon nome della nostra Università. Tengo invece ad esprimere ancora una volta la gratitudine del1’Università alle Autorità cittadine sempre solidali e sollecite nel propugnare il riconoscimento dei vitali interessi del nostro Studio; ed una parola di gratitudine e di ricordo va al dott. Vincenzo Peruzzo, il Prefetto di Pisa dalla Liberazione, la cui opera sappiamo che sarà continuata in difesa dell’Università dal suo degno successore. Con l’istituzione della Facoltà di Lingue moderne sarà possibile stabilire più stretti rapporti di collaborazione con istituti culturali, francesi, inglesi, americani - non possiamo ancora parlare della Spagna - i rappresentanti dei quali non solo sono già in relazione con me e con le nostre insegnanti di Letteratura e di Lingua inglese, Giglioli e Griselli, ma hanno onorato l’Università di frequente corrispondenza e di ripetute visite che mi auguro siano preludio a concreti accordi.

Ho detto di lavori edilizi compiuti o in corso o predisposti, per la maggiore efficienza dei nostri istituti. Ma non basta la casa, se non è arredata, e non basta la casa arredata se chi dovrebbe abitarla manchi di quello che gli è indispensabile. Grossi problemi che basta accennare: il ripristino dell’arredo scientifico dei nostri istituti, la garanzia di un adeguato rifornimento di mezzi perché l’attività scientifica dei nostri maestri, dei nostri assistenti (è doveroso ricordarli i nostri assistenti, i cui meriti sono appena riconosciuti con la concessione di premi di operosità scientifica inadeguati e, in verità, resi anche più modesti dal numero e dal valore dei concorrenti) e la stessa preparazione dei nostri alunni non siano vana parola, e infine l’assistenza, parola che non deve riferirsi solo alla mensa e all’alloggio, ma comprendere tutto quello che l’Università dovrebbe poter fornire agli studenti perché studino come si deve studiare. Nell’anno decorso ha funzionato d’intesa con la Postbellica, che ha fornito il necessario finanziamento, la mensa dei reduci, dei partigiani, dei danneggiati di guerra, degli sfollati, ed anche quest’anno sarà organizzata, forse su diverse basi, profittando anche della esperienza fatta, ma il problema dell’assistenza non si limita a questo e la sua gravità e complessità appare ogni giorno maggiore.

Per quanto attiene al nostro sforzo assiduo per il ripristino dei nostri istituti scientifici salutiamo con viva soddisfazione la proroga del Consorzio interprovinciale Universitario che col 1947 avrà maggiori fondi grazie alla sollecita adesione degli Enti consorziati delle nostre province ed eserciterà la sua benefica azione integrativa per la vita dello Studio. Ma se dobbiamo ringraziare le pubbliche amministrazioni delle province di Lucca, Livorno, Apuania, Grosseto, alle quali appartiene la nostra Università non meno che a Pisa, ed a cui si aggiungeranno, confido, la provincia della Spezia e, spero anche, i Comuni della Val di Nievole, del riconoscimento fattivo e spontaneo delle nostre necessità, pensando alla entità delle somme richieste perché gli istituti sperimentali compiano la funzione che loro spetta, appare chiaro come bisogni pensare a nuove fonti di alimento: come il bilancio universitario non raggiungerebbe il pareggio se non intervenisse il concorso che, per eufemismo, si dice straordinario del Ministero, così anche la vita del Consorzio senza nuovi cespiti resterebbe inadeguata ai più stretti bisogni.

E io già dissi in quest’aula che spetta agli industriali, agli agrari, ai commercianti, alle organizzazioni dei professionisti, considerare l’Università non solo come la scuola dei loro figliuoli, ma come l’organizzazione che nel complesso dei suoi istituti, e particolarmente i suoi istituti tecnici, alimenta e dirige la loro stessa attività economica: se pur non avvenga che ogni loro lenta iniziativa di concorso sia prevenuta dalle classi operaie, che nella libera vita dello studio riconoscono, e tutti dovrebbero riconoscerlo, il più solido fondamento di una progressiva civiltà. Ho ricevuto in questi giorni una lettera a cui ho cordialmente risposto, con la quale il Magnifico Rettore dell’Università Cattolica, di Milano invitava alla cerimonia celebrativa del 25° annuale della fondazione dell’Istituto. L’Università cattolica è alimentata dal libero concorso dei fedeli, e io mi domando perché le nostre Università che sono le Università di tutti, non possano godere di una stessa volontaria liberalità da parte dei cittadini nelle loro varie organizzazioni senza distinzione di fede politica o religiosa.

Le stesse osservazioni valgono per il conferimento di posti o di borse di studio e per il problema dei Collegi che erano la nostra meta, dato il modello secolarmente collaudato della Scuola Normale, e che non possono risorgere, se non ci soccorrano i mezzi così invocati. È molto significativo quello che ci comunicava nell’ultima seduta del Consiglio di amministrazione della Scuola Normale il nostro Collega Luigi Russo, che dall’America era giunta a noi la voce solidale di Enrico Fermi e di Gaetano Salvemini, alunno della nostra università e della nostra Scuola Normale il primo, maestro non dimenticato nella nostra Facoltà di Lettere e maestro sopratutto di dignità civile il secondo, di cui oggi si può pronunciare liberamente il nome - un tempo non si poteva - in questa aula storica: Enrico Fermi e Gaetano Salvemini hanno fatto sperare per la nostra Scuola Normale, cioè per la nostra Università, per i nostri Collegi, ai quali non potranno facilmente eguagliarsi i Collegi che sorgano in altre università italiane, non solo l’espressione di un grato ricordo ma anche un considerevole concorso finanziario, perché la tradizione gloriosa dell’Università e dei suoi istituti non sia rimpianto nostalgico, ma tradizione viva e operante.

Il fiorire della nostra Università dipende appunto dalla possibilità di mezzi adeguati all’opera assidua, affettuosa dei maestri, che non deve restare sterile e che non è mai mancata, né mancherà, nella consuetudine quotidiana, caratteristica di Pisa, che essi hanno coi loro alunni, e nella consapevole disciplina dei giovani, che deve essere custodita come un fecondo tesoro.

Ma di uno dei nostri maggiori maestri noi dobbiamo lamentare la perdita. Irreparabile danno la morte, quasi improvvisa, nella pienezza della sua mirabile attività, di Leonida Tonelli, che col suo altissimo magistero manteneva, in tutto il suo splendore la tradizione gloriosa della Facoltà di matematiche pisana: il suo nome si aggiunge degnamente a quelli di Enrico Betti, di Ulisse Dini, di Vito Volterra, di Eugenio Bestini, di Luigi Bianchi. Del suo valore scientifico, della sua efficacia di maestro - dalla sua scuola sono usciti giovani che già occupano degnamente cattedre universitarie - si dirà quando a lui si renderanno solenni onoranze. Ma Leonida Tonelli non fu soltanto un grande scienziato e un incomparabile maestro: egli deve essere ricordato altresì per la sua saggia e provvida opera come Direttore in tempi particolarmente delicati della nostra Scuola normale, come Preside della sua Facoltà e Direttore dell’Istituto di Matematica e degli Annali della Normale per la Sezione scientifica, ma sopratutto come un cittadino di salda fede democratica, cui ripugnò il servile ossequio del tempo fascista, e che, come era stato valoroso soldato nella guerra dal ’15 al ’18, fu animoso organizzatore della resistenza nel triste periodo del nazifascismo e pro-sindaco di Pisa col giorno della Liberazione. Rinnoviamo alla nobile compagna della Sua vita, al figlio, nostro valoroso alunno, alla famiglia sua tutta l’espressione di una riconoscenza e di un rimpianto che il tempo non riuscirà ad attenuare.

Una parola di rimpianto è dovuta anche alla cara memoria di Eugenio Passamonti, che fu nostro alunno, libero docente e incaricato: cultore fecondo e appassionato di Storia del Risorgimento, al quale arrideva prossima la meritata ascesa a una cattedra universitaria. Alla sua vecchia madre si rivolge il nostro pensiero

il saluto e l’augurio dell’Università.

Trasferiti rispettivamente alle Facoltà di Agraria di Firenze e di Magistero di Roma ci hanno lasciati il prof. Mario Tofani di Economia Agraria, che nella presidenza della Facoltà è stato sostituito dal collega Avanzi, e il prof. Giuseppe Caraci, di Geografia, degni l’uno e l’altro di grato ricordo per l’efficacia del loro insegnamento. Per disposizione di legge è stato restituito alla sua sede di origine il prof. Gino Baggio, chirurgo di nome, che tenne per dieci anni la direzione della nostra Clinica Chirurgica. A tutti rivolgo il saluto e l’augurio dell’Università.

Sono stati trasferiti invece a Pisa, e do loro il più cordiale e confidente benvenuto, da Siena Mario Benazzi, che terrà degnamente la cattedra di Zoologia e Anatomia comparata, ed Enrico Puccinelli di Patologia generale, che sale la cattedra onorata da Cesare Sacerdotti, di cui fu alunno meritamente prediletto e per non breve volger di anni assiduo collaboratore quale aiuto; da Palermo Silvio Ferri archeologo, lui pure nostro, e mio, scolaro, che aveva lasciato vivo desiderio di sé negli anni in cui tenne la stessa cattedra per incarico, e succede a un maestro insigne, ma che, chiamato ad altri e degni uffici, solo per breve tempo ci dette la sua opera sapiente, Luciano Laurenzi.

A queste rapide note si limiterebbe il mio dire, per quanto attiene al movimento dei nostri docenti, se una recentissima comunicazione ministeriale del tutto imprevista, quantunque conforme alla legge, di cui per altro non si è pensato di moderare con tempestive provvidenze l’incauta rigida applicazione, non minacciasse di privare anche la nostra Università di maestri, che non potrebbero mai essere facilmente sostituiti e che ci lascerebbero proprio all’inizio del nuovo anno accademico. È datata dal 30 ottobre la circolare ministeriale che dichiara collocati a riposo i professori che abbiano compiuto i 70 anni di età, che la circolare non nomina, ma che per l’Università di Pisa sono Evaristo Breccia, Ermenegildo Daniele, Agostino Diana, Francesco Galdi, Augusto Mancini, Matteo Marangoni, Luigi Puccianti, Giovanni Vitali. Si afferma che la questione, che è di importanza nazionale, sarà oggetto di nuovo esame, e tale consta essere il proposito di S. E il Ministro. Ad ogni modo è doveroso che a tutti i colleghi che per tal modo ci lascerebbero, l’Università rivolga un commosso saluto di cui io - mezzo vivo e mezzo morto - ho il dovere di essere qui interprete. E dico ai colleghi, specialmente ai Presidi della Facoltà più colpite, per taluna delle quali il nuovo grave danno si aggiunge a situazioni già critiche, provideant consules ne quid res publica con quel che segue. Che se mai muti in ciel nuovo consiglio, come si spera, spetterà a chi mi succeda in questo officio di rettore rinnovare, quando che sia, ai colleghi che ho nominati, i sentimenti da me espressi, e ripeter la lode che, fatta la debita eccezione per la mia persona, non eguaglierà mai il merito.

Per provvedere alle cattedre vacanti sono stati chiesti dalla Facoltà medica due concorsi: per la Clinica chirurgica e per la Clinica delle Malattie nervose e mentali, la cui direzione è stata provvisoriamente affidata al prof. Pintus. Alla Clinica Dermosifilopatica ci auguriamo che presto venga da Modena il prof. Marcello Comèl, scienziato e maestro di chiara fama, proposto con voto unanime dalla Facoltà. Per la cattedra di Geografia la Facoltà di Lettere provvederà con incarico finché non sia deciso un concorso già bandito per la stessa disciplina in altra Università.

Gli studenti iscritti per l’anno scolastico 1945-46 sono stati 4.922, ai quali debbono aggiungersi 1.348 iscritti alle sezioni staccate di Firenze e di Venezia, in tutto 6.290 iscritti, ma non direi altrettanti frequentanti. E pur tenendo in massimo conto le difficoltà di comunicazioni, il disagio economico delle famiglie, la gravità spesso insopportabile delle spese di soggiorno, la non ancora adeguata, e pur doverosa, assistenza universitaria, conviene esprimere l’augurio di una maggiore frequenza, anche per quelle Facoltà per cui a torto da non pochi si crede che possa prescindersi senza danno dalla assiduità: non bisogna dimenticare che per ogni disciplina la consuetudine fra maestri e scolari, e anche tra scolari e scolari, è il più saldo fondamento di un verace profitto e che le dispense non sostituiscono il maestro.

Date le difficoltà molteplici in cui si trovano i più degli studenti, si è cercato di fornir loro un qualche aiuto oltre che con la cassa scolastica e con l’Opera universitaria, le cui concessioni sono state ispirate alla maggiore libertà, ammettendoli a condizioni di favore alla mensa dei reduci gestita dall’Università coi fondi dell’assistenza postbellica, ma non sono stati lievi e di varia natura gli ostacoli che solo l’opera vigile e meritoria dei colleghi Magliano, Bonatti, Tongiorgi, ha potuto superare. È giusto riconoscere che molto di più resta a fare e, speriamo, con maggior beneficio per gli studenti e con la eventuale partecipazione altresì del personale docente e assistente. Ma non bisogna dimenticare che la sola sede disponibile per allogarvi alloggi e mensa era il vecchio edificio di Ingegneria, che la Casa Pacinotti non poteva essere sgombrata dalla biblioteca che vi aveva anche collocato i libri pervenuti alla Università dalla donazione Orsini Baroni, che la palazzina Timpano è inabitabile e soprattutto che la sede indicata per una mensa e per una casa dello studente - si mantiene il nome, ma ben diverso è lo spirito dall’istituto fascista - è ancora il fabbricato in Piazza dei Cavalieri, che è occupato dalla Direzione delle Poste e Telegrafi. Assicuro peraltro che, d’intesa, per quanto sia necessario, con l’Ufficio provinciale della Postbellica, a cui rivolgo un vivo ringraziamento, sarà fatto tutto il possibile per il ripristino, la estensione e la migliore organizzazione dell’assistenza anche per questa parte.

Il mio accenno alla maggiore desiderata frequenza degli alunni non deve far credere che i nostri studenti non abbiano tenuto alto il buon nome della scuola di Pisa. Ne sono prova il numero cospicuo di lauree che si sono avute con ottimo esito: oltre trecento di cui 39 con lode. Legittima consuetudine vuole che i nomi degli studenti laureati con lode siano proposti ad esempio nella solenne inaugurazione degli studi.

L’Università confida che l’ampio riconoscimento dei meriti di questi giovani fatto dai loro maestri sia auspicio non fallace per il loro avvenire.

Ma a questo punto il nostro pensiero si deve volgere a quei giovani cui la violenza inumana della guerra, negatrice di ogni nobile proposito, di ogni lieta speranza, tolse di giungere al termine dei loro studi, a cui erano stati avviati dall’amore delle famiglie con fede e con sacrificio e che essi avevano perseguito con tanta passione. Alle famiglie che si allietano del riconoscimento di merito dei loro figliuoli che è stato mio gradito dovere, si oppone il dolore di quei genitori che si videro contesa ogni legittima speranza: tale è nei suoi contrasti la legge e l’insegnamento della vita. Ma gli uni e gli altri debbono sentire profonda la comunione degli affetti, gli uni e gli altri possono avere un loro orgoglio, più quelli che dettero di quelli che giustamente raccolsero. E l’Università, alma mater, nel senso proprio e pieno della espressione latina, sente un obbligo di riconoscenza verso questi suoi figli che non considera perduti ma onore della sua famiglia da cui ebbero nascimento.

Il Senato Accademico accogliendo le proposte singole Facoltà ha riconosciuto titolo di Dottori honoris causa a tutti gli studenti che hanno dato la loro vita alla causa della Patria e della Libertà. I diplomi di laurea saranno rimessi alle famiglie quando il Ministro abbia stabilito la nuova formula di essi. Il Senato Accademico ha stabilito che la motivazione sia per tutti la seguente: “Confermiamo il titolo di dottore Honoris causa alla memoria (prendo il primo) di Franco Bellito studente di questa Università benemerito della patria col sacrificio della vita”: saranno peraltro aggiunte particolari notazioni per quei giovani dei quali debba segnalarsi particolare e documentata benemerenza.

In questo tributo di riconoscenza abbiamo voluto compresi tutti coloro che hanno perduto la vita per causa di guerra, sia quelli che sono caduti sul campo di battaglia, anche se costretti a combattere per una causa che forse non sentivano in cuore, ma che hanno avuto così spezzata la loro giovinezza, sia quelli che hanno trovato morte per incursioni aeree o altre azioni belliche, e con particolare rilievo coloro che, rastrellati e deportati dalla barbarie tedesca, non conobbero la via del ritorno alle loro case aspettanti, e quelli che partecipando alla guerra di liberazione detto deliberatamente la vita per la causa della libertà. Piace non far nomi ma ricordare i fatti: con alcuni particolari perché si comprenda a quale altezza e profondità sia giunto il dolore dei genitori, quanto ardimento e quanta fede abbiano avuto i nostri giovani, quanta somma di beni essi abbiano tenuto da meno e quasi spregiato di fronte al proprio dovere in servizio dell’Ideale[i].

Primo un nostro laureando in legge, medaglia d’oro e, ciò che più conta, medaglia d’oro della guerra di liberazione, a cui dette col vigore del suo corpo l’ardore della sua anima. Del resto, questi nostri giovani quando chiedevano di essere accolti nelle formazioni partigiane assumevano il loro nome di battaglia, e questo può essere ricordato, Maber. Fra i primi e i più ardimentosi nella lotta antifascista, non ancora guarito di una gravissima ferita che gli avrebbe lasciato l’onore della mutilazione, e insieme la vita, tornò ai più aspri cimenti della lotta partigiana e nella incombente minaccia, temuta più per gli altri che per sé, delle soverchianti forze nemiche, fece getto della sua vita che volle finisse libera.

Un babbo e una mamma si videro strappati dal seno due giovani fiorenti di bellezza e di bontà e di speranza e con loro un nipote, studente anch’esso, da loro ospitato di fronte al pericolo, venti, ventiquattro, diciannove anni, e due ore dopo, a centocinquanta metri dalla casa, dopo essere stati spogliati di tutto, giacevano a terra irriconoscibili per tre scariche di mitraglia. Il Babbo e la Mamma hanno offerto all’Università i ritratti dei due loro cari e sotto uno di essi gli studenti d’ingegneria hanno dettato queste parole: «Catturato insieme al fratello ed al cugino, sotto l’accusa di essere partigiano, fu lo stesso giorno. 2 settembre 1944 in Balbano Compignano (Lucca) depredato e assassinato barbaramente dalle SS. tedesche. Oggi, concordi, gli studenti laureandi di Ingegneria ricordando le sue insuperabili doti di generosità, di onestà e di bontà, e soprattutto la sua passione per gli studi, nei quali superava gli amici migliori, lo citano ad esempio a coloro che in quest’aula a lui tanto cara si avviano a conseguire quella laurea che il destino e la barbarie gli negarono. Il suo sacrificio non sarà stato vano se il ricordo ci fornirà, costante chiara dimostrazione di una vita tesa ai più alti ideali di libertà e di sapere».

Nobilissime parole di cui non sapremmo trovare più degne e che fanno ricordare l’esaltazione di questa continuità ideale di esempio e di sacrificio fatta di un nostro grande poeta: «Giovanni Pascoli», che fu anche maestro in questo Studio - e come tale è mio proposito che vi abbia maggiore ricordo di quanto fin qui non sia stato fatto - nei versi che dettò in morte di Antonio Fratti:

 

Fratti, se morti non erano i morti per l’alto Tuo cuore,

anche Tu vivi: non muoiono i forti,

già, come si muore.

Altri si piega e distende,

ma altri sta in piedi e dimora come una statua che accende

di lume perenne l’aurora.

 

Un partigiano unico figlio, ardente di passione e di fede, organizzatore con rischio e sacrificio personale continuo, prima dell’assistenza ai prigionieri inglesi fuggiaschi e ai nostri militari sbandati, dopo l’infausto 8 settembre, poi capo di una formazione partigiana sorta sotto i miei occhi, forte per numero e per tempra saldissima, in un combattimento di alta montagna, pur sapendosi accerchiato, resisté fino all’ultimo e morì di lì a poco per gravissime ferite. Era orfano di modesto agricoltore della nostra Val di Serchio, ed era rimasto Lui solo a conforto della vedova madre. La sua memoria è degna del più ampio riconoscimento. Uno studente di ingegneria, ufficiale del Corpo Volontari della Libertà, sorpreso, per denunzia di una spia, che doveva poi avere degna pena, nella Sede del Comando unico parmense a Bosco di Corniglia, a pochi metri dal passo della Cisa, vedendosi circondato, e non avendo modo alcuno di scampo, anziché arrendersi, non esitò a salire il primo piano della casa per impugnare la sua arma automatica e morì combattendo. È stato proposto per la medaglia d’argento. Era di nobilissima famiglia, di agiatissima condizione, nipote di uno fra i maggiori industriali liguri, uno fra i pochi membri del Senato che non si asservirono al Fascismo. E pensando, come a simboli, a questi due giovani che lasciarono l’uno la vedova mamma e la quiete accogliente dei suoi monti, l’altro ogni agio della vita, quasi disdegnando il sicuro avvenire che gli garantivano la dovizia dei mezzi e i cospicui parentadi, proprio mentre scrivo mi tornano in mente i versi con cui Giosuè Carducci fece immortale il sacrificio di Edoardo Corazzini:

 

Perché i bei colli di vendemmia lieti,

perché lasciasti, amico,

sfuggendo a’ pianti de l’amor segreti

sur un volto pudico?

Perché la madre tua lasciasti?...

Madre, perdona...

 

C’era un’altra madre, Roma, che gli tendeva le braccia e gli diceva una parola sola: «O figlio», non altro.

 

Ed egli a cui nel core

ridea queto un desire.

per lei lasciava il suo soligno amore

per lei corse a morire.

 

 

Con uguali accenti ha invitato i nostri giovani alla morte e alla gloria un’altra dea, un’altra madre, la Libertà: ma anche allora, ottanta anni or sono, nei giorni di Mentana, nel nome di Roma era la Libertà che parlava e la gioventù italiana che rispondeva.

Vogliamo essere ancora accompagnati dal nostro poeta, che così parlava a Victor Hugo:

 

Canta al mondo aspettante

Giustizia e Libertà.

 

Per la giustizia e per la libertà sono corsi a morire i giovani, per la giustizia e per la libertà è sorta e dovrà vivere la Repubblica d’Italia; è questo il primo anno della sua celebrazione accademica.

Giustizia e Libertà non per la nostra Italia soltanto, ma per il mondo aspettante, che senta il fascino e la dolcezza dell’impero di una legge comune in una società quale Giuseppe Mazzini auspicò, società di liberi in patrie libere, e nel diritto, che é la sola salda garanzia di pace, ripeto nel diritto, e nella coscienza di esso, uguali.

Con singolare compiacimento mio e del Senato Accademico do pertanto la parola al collega Walter Maturi perché vi dica appunto di «Mazzini e il concetto d’Europa».

 

Da: Annuario dell’Università degli studi di Pisa per l’anno accademico 1946-1947.

[i] L’elenco completo degli studenti che dettero la vita per la Patria e che ebbero conferita la laurea ad honorem è pubblicato nel presente Annuario.

Ask a librarian