Palazzo della Sapienza, Aula magna nuova, 6 ottobre 2002.
Discorso del vincitore del Premio Galilei 2002, prof. Klaus W. Hempfer
Magnifico Rettore, autorità militari e civili, Presidenti, Governatori, cari colleghi e amici, signore e signori,
purtroppo non sono nato italianista, e nemmeno italiano, come potete facilmente capire dal mio accento. Ma, se fossi nato italiano, oggi non sarei qui e non potrei ringraziarvi del grandissimo onore che mi viene concesso attraverso il conferimento del premio Galileo Galilei. Il premio Galileo Galilei, che viene conferito a studiosi stranieri per le loro ricerche sulla cultura italiana, è un’istituzione unica al mondo e testimonia la grande apertura della cultura italiana, che non ha eguali in un altro popolo. Il mio ringraziamento va in modo particolare ai fondatori e agli sponsor del premio, che hanno fatto sì che, dagli anni ’60 ad oggi, un considerevole numero di studiosi stranieri potesse essere premiato in questo modo eccezionale. Il mio ringraziamento personale va al Magnifico Rettore dell’Università di Pisa e alla giuria da lui nominata, che mi ha fatto l’onore straordinario di designarmi quest’anno vincitore del premio per l’ambito della “Storia della letteratura italiana”. Sono consapevole del fatto che nell’italianistica di tutto il mondo c’erano eccellenti candidati a ricevere questo premio. Che la scelta sia caduta proprio su di me, lo considero un puro caso fortunato.
Come ho detto non sono nato né italianista né italiano; perciò ho dovuto innanzi tutto acquisire le basi linguistiche di quello che in seguito sarebbe divenuto il mio campo di ricerca. Durante i miei studi liceali ho potuto studiare l’inglese, il francese, e anche un po’ di latino e greco, ma purtroppo non l’italiano, che non era previsto come materia. Il mio primo contatto con la lingua italiana risale comunque ai tempi del liceo: tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, infatti, in occasione della prima ondata dell’invasione “teutonica” in Italia, specialmente nella costa adriatica, il Bayerischer Rundfunk volle offrire ai turisti tedeschi diretti in Italia un minimo di bagaglio linguistico con una trasmissione di mezz’ora che andava in onda il sabato, “Parliamo italiano”. Questa trasmissione fu anche per me il primo passo nell’italiano, ma purtroppo per molto tempo anche l’unico. Dal momento che a scuola avevo studiato l’inglese per nove anni e il francese per sette, all’Università cominciai con lo studiare proprio queste due lingue, per l’insegnamento delle quali mi abilitai nel 1967.Dalla mia tesi di laurea scaturì anche il tema del mio dottorato di ricerca, dedicato alla poesia satirica francese del XVIII secolo, cosicché anch’io, come la maggior parte dei filologi romanzi della mia generazione, ho iniziato la mia carriera come francesista.
La fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 furono caratterizzati in Germania, come nel resto dell’Europa, non solo da grandi trasformazioni politiche: anche le discipline universitarie, e tra esse soprattutto gli studi letterari, videro operarsi trasformazioni fondamentali. Era l’epoca della discussione teorica, ed anche in questo era ovvio, almeno per un giovane francesista, guardare innanzi tutto alla Francia. Dopo un libro sulla teoria dei generi letterari, pubblicato nel 1973 e incentrato non più solo sulla Francia, nella mia dissertazione di abilitazione alla libera docenza tentai una critica radicale della teoria poststrutturalista del testo sviluppata da Derrida, Kristeva, dall’ultimo Barthes e più in generale dal gruppo “Tel Quel” dalla metà degli anni ’60 in poi. Prima che il decostruzionismo iniziasse la sua marcia trionfale oltre Atlantico, cercai di decostruirlo, ma il successo non mi arrise. Il mio libro non solo era uscito nel momento meno opportuno, ma era per di più scritto in tedesco, e i libri in tedesco sulla letteratura francese non vengono recepiti in Francia, quasi per principio. Tuttavia, che io con la mia decostruzione del decostruzionismo non fossi del tutto in torto, lo potei constatare, con mia grande soddisfazione, leggendo un successivo articolo di Cesare Segre, nel quale lo studioso, con la fine cautela che gli è caratteristica, formulava una critica fondamentale a quest’approccio.
Quando il mio studio Poststrukturale Texttheorie, concluso nel 1974, vide le stampe nel 1976, il mio orientamento precipuo verso la Francia era già terminato. Nel 1972, infatti, Alfred Noyer-Weidner, il mio maestro, aveva fondato presso l’Università di Monaco il primo e a tutt’oggi unico Istituto di Italianistica della Repubblica Federale Tedesca, e prendendomi come assistente, mi aveva condotto dalla filologia romanza all’italianistica, nonostante le mie conoscenze di lingua e di letteratura italiana fossero ancora pressoché rudimentali. Innanzi tutto, con una borsa di studio del governo italiano mi mandò un mese a Perugia, perché potessi migliorare le conoscenze linguistiche che avevo acquisito più di dieci anni prima grazie a quella trasmissione del Bayerischer Rundfunk. Poi, al mio rientro da Perugia, il nostro maestro diede a me e ai miei colleghi lezioni personali di lingua e di storia della letteratura, per esempio nell’ambito di un seminario sulle Odi del Parini, che dovevamo tradurre in tedesco, e grazie alle quali prendemmo ben presto dimestichezza con le complesse possibilità linguistiche di una sintassi italiana latineggiante. Le Prose del Bembo, che seguirono alle Odi del Parini, al confronto ci offrirono quasi occasione di riposo. Alfred Noyer-Weidner ha studiato e insegnato la letteratura italiana da Dante a Ungaretti e mi ha fatto conoscere, tardi, è vero, ma forse non troppo tardi, gli ambiti centrali della letteratura italiana. Dopo alcuni seminari tenuti come assistente, nel 1976 tenni, come professore associato, il mio primo corso monografico d’italiano, su un tema che sarebbe divenuto un nodo essenziale dei miei studi futuri: l’epica cavalleresca del Rinascimento.
Quando poi nel 1977 mi fu offerta la prima cattedra di professore ordinario, era una cattedra la cui denominazione rispecchiava i miei interessi originari: era infatti una cattedra di Filologia romanza con particolare attenzione alla letteratura francese e alla teoria della letteratura. Il mio illustre predecessore, Walter Pabst, ben lungi dall’essere un francesista puro, era invece un tipico rappresentante della tradizione tedesca della Filologia romanza, tradizione che si è sempre dedicata, sia nella ricerca sia nell’insegnamento, ad almeno due lingue o letterature romanze. Ho cercato anch’io di proseguire questa tradizione, impegnandomi soprattutto per consolidare la presenza dell’italianistica alla Freie Universität, negli ambiti sia della ricerca sia dell’insegnamento. Nella ricerca mi sono occupato dapprincipio dell’epica cavalleresca del Rinascimento e del petrarchismo. Dalla fine degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 ho trascorso ogni primavera ed ogni estate alla Biblioteca Nazionale a Firenze, alla Biblioteca Ariostea a Ferrara, o alla Biblioteca Marciana a Venezia, per leggere quasi tutte le testimonianze pervenuteci sulla ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento. Era il mio tentativo di pervenire ad una comprensione storicamente adeguata del testo stesso tramite la ricostruzione della sua ricezione presso il pubblico originario. Lo scopo era un’interpretazione globale dell’Orlando Furioso, per cui la ricerca sulla sua ricezione avrebbe dovuto costituire il primo capitolo.Quello che avrebbe dovuto essere un primo capitolo è diventato invece un libro esteso, pubblicato dapprima in tedesco nel 1987, e la cui traduzione italiana, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento, uscirà tra breve presso la Panini di Modena. Il volume sulla vera e propria interpretazione del Furioso però, già annunciato nella mia prefazione a questo libro, non l’ho ancora portato a termine. Ho tuttavia portato a termine tutta una serie di singole ricerche sul poema di Ariosto, come pure su Pulci e Boiardo, ma alla mia promessa di mettere a frutto la ricerca sulla ricezione del Furioso per la sua interpretazione devo ancora adempiere.
Dopo che ebbi cominciato a frequentare nei miei studi la letteratura italiana del Quattro e del Cinquecento, il passaggio al Trecento fu naturale. Nel 1982 uscì il mio primo saggio sulla Vita Nova di Dante, in una traduzione che purtroppo ne stravolse in parte il senso. La versione più ampia, che veicola il senso originale del mio pensiero, apparve nel Deutsches Dantejahrbuch dello stesso anno. Da allora sono divenuto un caso difficile per i traduttori, il che nuoce alla leggibilità delle mie pubblicazioni uscite in italiano; tuttavia io stesso sono solito correggere il testo italiano, almeno finché non sono sicuro che il senso corrisponda al mio pensiero. Che poi, una volta che il senso quadra, il risultato sia ben lungi dall’essere un bel testo italiano, è un’esperienza che faccio continuamente e per la quale non sono ancora riuscito a trovare una soluzione. Laura Bocci ha fatto tutti gli sforzi possibili e immaginabili per tradurre in italiano la mia “german academic prose”, come gli anglosassoni usano definire, con un fondo d’ironia che non si può non avvertire, il discorso accademico tedesco: il risultato di tali sforzi si può leggere nella mia raccolta di saggi Testi e contesti, pubblicata da Liguori nel 1998, che rende accessibili lavori di approccio essenzialmente metodologico a un pubblico italiano cui la “german academic prose” può risultare di difficile lettura.
Come dicevo, dalla fine degli anni ’70 in poi ho preso l’abitudine di trascorrere in Italia la primavera e tutta l’estate. Nel 1984 mi si presentò l’occasione di acquistare una casa colonica nel Chianti, che ha trasformato la mia ormai più che decennale “relazione” con l’Italia in un vero e proprio legame.
Quando nel 1987 mi venne offerta la cattedra di successore del mio maestro, la cattedra di Italianistica dell’Università di Monaco, erano tutti convinti che mi sarei trasferito a Monaco, foss’anche solo per la maggior vicinanza alla Toscana. Del resto, ne ero convinto anch’io. Però, dopo lunghe indecisioni, sono rimasto a Berlino, alla Freie Universität, nonostante il muro non fosse ancora caduto - o forse anche per questo. Poi, con la caduta del muro, è cominciato un periodo difficile per la Freie Universität. Insieme alle due Università di Berlino Ovest (la Technische Universität e la Freie Universität), ora doveva essere finanziata anche l’università della capitale dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, la vecchia Friedrich-Wihlhelm-Universität, che sotto il regime comunista era stata chiamata Humboldt-Universität. Dopo 40 anni di socialismo reale l’Università era decaduta come il resto del Paese, e si sono resi necessari ingenti sforzi finanziari per ricostruire l’università e darle un corpo docente che riportasse la ricerca e l’insegnamento a livelli europei occidentali. Naturalmente, a farne le spese sono state le altre due università berlinesi, dal momento che in Germania i finanziamenti alle università sono essenzialmente di competenza dei singoli Länder e non dello Stato Federale. A questo si aggiunge il fatto che Berlino, venute meno le sovvenzioni speciali vigenti quando c’era il muro, ora è un Land poverissimo, che, a meno di un cambiamento radicale, alla lunga non potrà reggere la competizione intellettuale e accademica con la Baviera o il Baden Wüttemberg. Caratteristica del sistema universitario tedesco è infatti la competizione tra i singoli Länder, ed anche il fatto che un ordinario tedesco, quando gli viene offerta una cattedra presso un’altra università, possa trattare con l’università in questione non solo il suo stipendio, ma anche fondi di ricerca, posti di assistente, ecc. Vale a dire che uno dei pochi pregi del sistema universitario tedesco è la sua struttura federale, che fa sì che la competitività sia un elemento costitutivo del sistema stesso. I Länder poveri, ma anche quelli con leggi universitarie meno buone, alla lunga devono accontentarsi di quello che resta. Io continuo a sperare che la mia università, la Freie Universität di Berlino, all’interno della quale insegno e ricerco da ormai 25 anni, riesca a volgere a suo vantaggio anche la difficile situazione attuale.
Nel corso di questi ormai lunghi anni, sono riuscito a costruire ottimi contatti con colleghi italiani venuti a Berlino per tenere delle conferenze, o con quelli che mi hanno invitato presso le loro università in Italia. In questo contesto è stato possibile realizzare convegni italo-tedeschi, a Berlino o a Villa Vigoni, sul lago di Como, convegni che hanno avviato un fertile dialogo tra le diverse tradizioni e i diversi approcci al testo letterario. Per quanto è ovvio che l’Italia è il centro dell’italianistica, altrettanto ovvio è che nello sguardo dall’interno verso la propria letteratura è data per scontata tutta una serie di premesse che non sussistono invece in uno sguardo dall’esterno, il quale si basa a sua volta su altre premesse, spesso di tutt’altra natura. La combinazione tra sguardo interno e sguardo esterno può portare a riconoscere quanto il proprio sguardo sia condizionato da presupposti apparentemente ovvi - un risultato tutt’altro che trascurabile.
Che la Freie Universität di Berlino, nonostante la diminuzione dei contributi statali, sia comunque in grado di costruire nuove realtà, lo dimostra la fondazione dell’Italienzentrum, avvenuta nel 1997. Dal momento che in numerose università tedesche esistono centri dedicati alla Francia, alla Gran Bretagna, all’America del Nord, all’America Latina, all’Europa dell’est e alla Scandinavia, ero dell’opinione che almeno in una università tedesca ci dovesse essere un centro dedicato all’Italia, un Italienzentrum. Sia l’allora Rettore della Freie Universität, Johann Gerlach, sia l’allora Ambasciatore italiano nella Repubblica Federale Tedesca, Umberto Vattani, appoggiarono con entusiasmo il mio progetto, così che si raggiunse un accordo tra la Freie Universität e la Repubblica italiana per l’istituzione di un Italienzentrum, al finanziamento del quale l’Italia partecipa sostenendo i costi del posto del dirigente amministrativo. La Freie Universität, da parte sua, non solo sostiene i costi di gestione del centro e mette a disposizione i mezzi per conferenze, per incarichi di docenza su temi legati all’Italia, per convegni e altro ancora, ma rende anche possibile - nonostante negli ultimi 10 anni i posti di professore siano stati dimezzati - la nuova assegnazione di posti di docenti incentrati sull’Italia. L’Italienzentrum ha poi il compito precipuo di promuovere la collaborazione tra le università del polo berlinese e le università italiane. La collaborazione che si mira a realizzare va intesa non solo come collaborazione su temi specifici italiani, soprattutto in ambiti delle scienze umane e scienze sociali, quali l’italianistica o la storia dell’arte; è nostro scopo promuovere, sostenere e realizzare cooperazioni italo-tedesche nei più diversi ambiti disciplinari e scientifici. Attraverso una quantità di manifestazioni diverse, che vanno dalle classiche conferenze ai dibattiti con rappresentanti di primo piano dei media e della politica italiani, abbiamo cercato di rendere ancora più visibile, nei campi più disparati, la presenza dell’Italia a Berlino.
Se guardo alla lista di coloro, che dal 1962 ad oggi, hanno ricevuto questo magnifico premio, tra i quali si trovano nomi come Gerhard Rohlfs, Hans Baron, Paul O. Kristeller, o Nicolai Rubinstein, mi rendo conto di essere ben lungi dal meritare questo premio. Sono per questo ancora più felice di averlo ricevuto oggi. Grazie.
Da: http://www3.humnet.unipi.it/galileo/Fondazione/Vincitori%20Premio%20Galilei/Klaus_Hempfer.htm (consultata in rete il 24.01.2006).